È successo ancora e non è certo finita qui. La Francia, e con lei tutto l’Occidente, è stata colpita nel cuore della nostra civiltà, Parigi, simbolo universale del modo di vivere di noi europei.
Lasciamo subito perdere le puntuali valutazioni sul perché sia successo e sul come sia potuto succedere, che molti politici ed “esperti” nostrani hanno esternato in talk show e trasmissioni televisive piene di retorica, di luoghi comuni e, come sempre, occasioni per comizi elettorali.
All’estero è stato diverso. Abbiamo osservato reazioni composte, determinate, unità di intenti da parte di governi ed opposizioni su un problema – quello appunto del terrorismo e dei conseguenti fenomeni migratori – che dappertutto è considerato strategico e mai assoggettabile a logiche di destra, di sinistra o ad ideologie di partito.
Fortunatamente in questi contesti – dove maturità politica, pur in presenza di qualche contraddizione, e democrazia consolidata sono di casa – è stata ribadita, condivisa e confermata la convinzione che si debba rimanere “fermi sui nostri principi anche dopo gli attacchi di Parigi perché non si difendono i nostri ideali rimuovendoli”
L’Europa è, e deve restare, un luogo di libertà, di solidarietà, di accoglienza e di rifugio, con ferma risoluzione da parte nostra a mantenere, appunto, questi nostri principi.
Le parole di Hollande sono state da subito estremamente chiare.
“La Francia è stata oggetto di un’azione di guerra e reagirà senza pietà contro i suoi nemici”: chiarezza estrema, assenza di giri di parole per dire, non dire e poi accontentare tutti, ai quali dalle nostre parti siamo purtroppo abituati. Discorso tagliente, da statista, come si aspettavano tutti i francesi senza distinzioni, condiviso da tutte le parti politiche.
Certo qualcosa è cambiato rispetto a “Charlie Hebdo” ed ai tragici attentati che l’hanno preceduto. Questi sono veri e propri attacchi, non hanno più l’aspetto dell’attentato terroristico mirato ad un obiettivo, ad eliminare un leader o un simbolo. Si è trattato di azioni militari condotte con fredda tecnica e forse proprio per questo Hollande si è sbilanciato ed ha parlato del nemico come “esercito dell’ISIS”.
Ma attenzione. Lo Stato Islamico è alla ricerca di legittimazione, non dobbiamo cadere nel tranello. Riconoscere all’ISIS che ci ha dichiarato guerra come Stato significherebbe dargli un riconoscimento internazionale, concedergli la “statualità” che avidamente ricerca con la presente azione terroristica internazionale al di fuori dei suoi confini. Significherebbe anche accettare di affrontare questa organizzazione criminale alle sue condizioni piuttosto che alle nostre.
Nella sostanza, e negli atti di da compiere, parliamo pure di guerra ma poi, attenzione, ci sarà da decidere chi questa guerra la deve condurre. Hollande può parlare per la Francia, anche se questo attacco era contro tutto l’Occidente ed i suoi valori. Ce ne sono stati altri, di recente condotti verso diverse realtà di questo complicato mondo. L’azione dell’ISIS non è diretta solo contro di noi.
In pochi giorni direttamente o sfruttando i suoi gruppi terroristici lo Stato Islamico ha abbattuto un aereo russo (224 vittime), ha effettuato un attentato a Beirut contro Hezbollah (43 vittime) ed un altro a Bagdad (18 vittime). Non dimentichiamo che ci sono più vittime di attentati dentro ai suoi confini che fuori o contro l’Occidente.
Ed allora quale deve essere la nostra risposta?
Ci sono appelli continui, da più parti, a modificare le nostre abitudini, alcuni aspetti della nostra democrazia che sono per noi punti di debolezza ma per il nemico invece punti di forza.
È logico che accada. Ci sta, nell’emozione del momento della paura e nella conseguente ricerca di sicurezza a tutti i costi, anche se si sa che una sicurezza assoluta non è possibile.
Si dice allora “chiudiamo le frontiere, fermiamo l’ingresso dei flussi dei profughi, diamo poteri speciali ai governanti”. Tutte misure che, se confermate al di là dell’emergenza, modificherebbero comunque il nostro sistema di vita.
Certo tutto questo sembra logico, la soluzione per allontanare il pericolo di nuove catastrofi.
No, dobbiamo essere forti, dobbiamo riflettere e capire che auto-costringerci ad atti definitivi di modifica del nostro sistema di vita, e quindi contro noi stessi e la nostra civiltà, è proprio lo scopo del “califfo”.
Ci dobbiamo convincere che se veramente crediamo nei nostri valori, come spesso ci succede di affermare, dobbiamo proteggerli e per proteggerli non possiamo certo smantellarli.
Dobbiamo agire direttamente sulla fonte del problema. Ed il problema è oggi in Siria, dove si è assestato l’ISIS, perché dalla soluzione della crisi siriana dipende anche la stabilizzazione in Libia che tante preoccupazioni suscita nel nostro Paese ed in tutto il medio Oriente.
Ed allora vanno condotte, a cura della “comunità internazionale”, due azioni parallele, da portare avanti con spietata determinazione affinché sia chiaro all’ISIS che le sue mire distruttive della nostra civiltà, proprie del nuovo califfato, non potranno mai concretizzarsi in una perdita dei nostri valori fondanti e del nostro “bel modo di vivere”.
Una decisa azione militare condotta da una coalizione internazionale unica, della quale facciano ovviamente parte gli Stati Uniti, la Russia, l’Unione Europea ed alcuni paesi arabi, subito, contro lo Stato Islamico – costi quel che costi anche, purtroppo, in vite umane – per togliere all’ISIS territorio e risorse. Il “califfato” senza questi due elementi tornerebbe ad essere solo un movimento terroristico.
La seconda azione riguarda i negoziati. Una “energica” e da tutti condivisa azione diplomatica, a Vienna si sta già lavorando, per risolvere la questione siriana a premessa di una nuova organizzazione del Medio Oriente.
Non c’è più tempo per esitazioni o titubanze, la comunità internazionale le sue Istituzioni devono agire.
Altri attacchi ed attentati in Occidente ci potranno essere, ma faranno parte del rischio che non si può cancellare e con il quale, tutto sommato, abbiamo già imparato a convivere.