Di certo i risultati del referendum di ieri 23 giugno hanno prodotto una vera sorpresa in tutta Europa. I sondaggi del giorno precedente davano il remain quasi per certo. Anche i giornali italiani di oggi con il Corriere della Sera in testa, evidentemente “chiusi” prima degli esiti definitivi, escono con titoli ancora basati sui sondaggi favorevoli alla permanenza. Triste la tardiva correzione che potrà apparire solo sui quotidiani di domani, con 24 ore di ritardo.
La Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione Europea.
Il Regno Unito ha finalmente scelto di mettere fine a 43 anni di appartenenza, il partito dell’abbandono ha vinto con il 51,9% contro il 48,1% di coloro che erano favorevoli a rimanere. La partecipazione al voto è stata del 72,2%, superiore a quella del 68% delle legislative del 2015, 263 circoscrizioni hanno votato per l’uscita e 119 in favore. Contrari gli anziani, favorevoli all’Europa i giovani e questo sarà un conto che la Gran Bretagna dovrà saldare al suo interno. Ma oramai nessun dubbio, sono fuori e per sempre.
Preso atto del risultato del voto, il premier Cameron che si era personalmente speso per il “remain” si è dimesso, per lasciare a un altro leader la responsabilità di intavolare i negoziati con l’Unione.
Un commento a caldo: “chapeau” a Cameron, non ha cercato nessuna giustificazione, non ha detto che “è un voto di cambiamento piuttosto che di protesta”, ha ammesso la sconfitta e se n’è andato. Ce ne fossero anche da noi!
Al di là delle conseguenze di carattere giuridico, economico o strutturale che con questo esito l’Unione Europea e la Gran Bretagna dovranno sopportare e che emergeranno in modo chiaro solo nei prossimi mesi, si è trattato di un voto rivelatore delle fratture del paese.
I risultati mostrano un Regno Unito profondamente diviso con Londra, la Scozia e l’Irlanda del Nord che hanno votato per restare mentre il Nord dell’Inghilterra ed i paesi del Galles hanno votato per uscire. Favorevoli all’exit in particolare al Nord e nel sud-est del Paese dove il problema dell’immigrazione è più sentito.
La Scozia è l’Irlanda sono eurofavorevoli ed ora sono nuovamente e con maggior vigore tentate da un referendum per la loro indipendenza. La Scozia era per il “remain” e come avevano preannunciato in campagna referendaria i suoi leader, reclamerà un nuovo referendum per la piena indipendenza dal Regno Unito che le consenta di rientrare in Europa come Stato sovrano. Qualche minuto dopo l’annuncio degli esiti, il primo ministro della Scozia ha ribadito “ i miei amministrati vogliono un avvenire in seno all’Unione Europea”.
Anche il partito indipendentista irlandese, per bocca di un vecchio esponente politico dell’IRA, ha immediatamente chiesto un referendum per un’Irlanda unificata perché “……con questo esito il governo britannico ha perso tutta la sua autorevolezza nel rappresentare gli interessi economici e politici delle Irlanda del Nord”.
Il presunto effetto domino che si temeva in Inghilterra per le varie autonomie nazionali è in atto.
Ma ora la reazione a catena continua anche fuori dall’isola, mano a mano che i vari leader anti europeisti si svegliano, si conoscono le altre reazioni in Europa e gli appelli a nuovi referendum che si moltiplicano.
In Olanda il deputato di estrema destra Gerard Winter ha subito reclamato un referendum su un’eventuale uscita dei Paesi Bassi dall’unione europea “…..anche gli olandesi hanno diritto a un referendum ha detto”.
In Italia Matteo Salvini, è stato il più pronto a reagire questa mattina, da buon padano si è svegliato presto, salutando il coraggio dei britannici ha detto “….ora è il nostro turno”.
In Francia Marie Le Pen capo del Fronte Nazionale ha salutato il risultato come una vittoria della libertà “….occorre ora tenere lo stesso referendum in Francia e negli altri paesi dell’unione europea”, ha dichiarato.
Di altro avviso alcuni leader tedeschi e belgi. In Germania il ministro degli affari esteri ha detto che il risultato del referendum in Gran Bretagna marca un giorno triste per l’Europa e per la Gran Bretagna.
Il premier belga Charles Michel ha chiesto un incontro ad alto livello per ribadire l’impegno per un nuovo avvenire europeo, per una nuova Unione diversa da quella fallimentare di oggi che è corresponsabile del risultato britannico “….. perché non ha saputo nel corso degli ultimi anni convincere i cittadini del plus valore europeo nella loro vita quotidiana e soprattutto nel loro futuro, ne tracciare percorsi di prospettiva per i popoli europei”.
Come si vede lo sgretolamento dell’Europa è iniziato.
Certo ora si deve necessariamente cambiare. Dirigenti della comunità internazionale, investitori e multinazionali si sono spesi a favore del remain con riferimento soprattutto al tema dell’economia che appariva ed appare ancor di più oggi come il più vulnerabile alle conseguenze della Brexit.
Il risultato di questa consultazione che ha visto montare l’euroscetticismo anche a livello continentale sarà sicuramente molto determinante per l’avvenire della costruzione europea. Vedremo presto.
Nei giorni scorsi, pur in un clima di fiducia nel remain, le istituzioni si erano comunque preparate anche alla soluzione peggiore. Riguardo ad una possibile exit le dichiarazioni erano state del tipo: “se i britannici se ne vogliono andare bene, sappiano però che non potranno continuare ad approfittare del mercato interno senza partecipare al budget ed alle spese dell’UE”. “Andarsene significa andarsene”, ha ribadito il tedesco Manfred Weber Presidente del gruppo del Partito Popolare(PPE) al Parlamento europeo, uomo molto vicino alla cancelliera MERKEL della quale avrà voluto anticipare la posizione.
Il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker aveva sostenuto che una Brexit sarebbe stata un atto di auto mutilazione per i britannici. Ma non è stato considerato molto dagli Inglesi, come spesso gli accade, subito al di fuori del suo ufficio a Bruxelles.
Ora i leader Europei, tutti bastonati perché questa è una sconfitta non solo per Cameron ma per tutti loro, sperano di poter trovare un accordo nel corso del summit del 28 del 29 giugno su una posizione di negoziazione comune nei confronti di Londra,che si vuole decisa, addirittura molto dura. Anche qui c’è da dire…… vedremo.
Londra dovrà chiedere l’applicazione dell’articolo 50 del trattato dell’Unione che permette a uno Stato membro di “chiedere il divorzio”. Ma il trattato base, quello di Lisbona, è talmente complicato e burocraticamente intricato da far prevedere tempi lunghi ed estenuanti negoziazioni – molto costose da tutti i punti di vista – prima di sbrogliare la matassa che in 43 anni di Europa hanno mal dipanato Regno Unito e partner europei.
Ma il problema immediato che si pone per i governanti è quello di mantenere la coerenza dei 27 anche in questo processo di uscita che si affronta per la prima volta e che presenta derive pericolose. In virtù della procedura prevista dall’articolo 50 gli europei avranno due anni per sciogliere tutti i legami con Londra, ma già si pensa che non basteranno. Ed allora si dovrà fare in modo che questa procedura vada avanti il più velocemente possibile senza ritardi e dilazioni per Londra. Il pericolo è che venga a mancare la coesione in questo triste processo di divorzio che avviene in un clima di disfacimento. I 27 Stati membri, che comunque vantano relazioni bilaterali con l’Inghilterra al di fuori dell’Unione Europea, manterranno nel tempo questa linea inizialmente così intransigente? Oppure per interessi nazionali saranno pronti a cedere, a fare delle concessioni bilaterali a Londra?
“A pensar male…sempre ci si azzecca” ed il pensiero va agli olandesi o ai tedeschi alleati privilegiati di Londra su numerose questioni soprattutto economiche importanti e gestite al di fuori dei laccioli comunitari.
Per mantenere la coerenza dei 27 Parigi e Berlino dichiarano di voler congiuntamente riflettere per proporre poi agli altri una presa di posizione comune. Si troveranno lunedì prossimo 27 giugno tra di loro, forse inviteranno qualcun altro, ma non è detto.
L’Europa del direttorio Francia Germania senza l’Inghilterra già emerge e questa idea franco-tedesca di esprimersi a due su un soggetto così importante per tutti i paesi rischia di dividere ancora di più quello che resta dell’Unione.
Due riflessioni in conclusione.
La prima. L’Europa economica, quella dell’unità politica non si è ancora consolidata, anzi la Brexit ne rappresenta il fallimento. Rimane però sul tavolo un dossier importante perché tenuto conto della difficile situazione internazionale mantiene scottante attualità. Quello della Difesa e Sicurezza, argomento sul quale tutti i Paesi europei, meno la Gran Bretagna, hanno dimostrato sensibilità. Una Difesa a tutto campo nessun Paese può più permettersela. Ed allora partendo da questa esigenza che è veramente comune, si potrebbe ripartire. A 27 o meno, l’importante è che tenga duro il “core” dei sei Paesi fondatori dell’Unione (tra cui l’Italia) dove europeismo e solidarietà potrebbero aver mantenuto radici più vitali e profonde.
“ La difesa e la sicurezza hanno il potenziale per divenire il vero motore dell’integrazione europea” ha detto di recente François Hollande. Possiamo concordare e sperare che in questo campo si proceda molto più velocemente ora che il Regno Unito, da sempre contrario ad un Esercito europeo, non potrà più contrastare le iniziative in tale settore.
La seconda. Per una volta rendiamo omaggio alla lungimiranza della nostra Costituzione che ha escluso il referendum per le questioni connesse con i trattati internazionali. Sottoporre ai cittadini decisioni come quella del referendum sulla Brexit, non va bene e lo abbiamo visto oggi. Non è con il “ voto di pancia” influenzato da mille problemi, personali dei votanti, sociali, economici, ecc. che si può decidere il destino di appartenenza di un Paese a sistemi comunitari economici, politici, di difesa e sicurezza. Il livello di consapevolezza dei cittadini britannici sulle conseguenze del loro voto era sicuramente molto basso ed inadeguato ad una decisione tanto importante. I referendum vanno bene per le questioni locali, sono una forma di democrazia diretta adattabile ai problemi interni della piccola Svizzera o delle comunità locali, non per la strategia di un Paese.