L’uomo ha sempre guardato al mare come a uno spazio infinito verso cui espandersi. Per motivi economici, politici, strategici e militari le più grandi potenze della storia hanno sempre cercato di controllare i mari per poter imporre, mantenere o espandere la propria supremazia. Alcuni popoli sono riusciti nell’intento di costruire una talassocrazia, ossia una potenza basata sul dominio dei mari, altri invece hanno fallito, abbandonando il sogno di trasformarsi in una grande potenza globale. Talassocrazia e globalizzazione sono indissolubilmente legate tra loro, perché le principali rotte commerciali internazionali passano sull’acqua, soprattutto sugli oceani. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sono gli Stati Uniti i dominatori indiscussi dei mari, ma la loro supremazia è sempre più messa in discussione dall’ascesa della Cina.
“Limes”, rivista italiana di geopolitica, ha dedicato il numero di luglio a questi temi, offrendo numerosi spunti di analisi e riflessione.
La storia è disseminata di insuccessi da parte di alcuni grandi imperi terrestri di darsi una dimensione marittima. Partendo dalla Persia che, nell’antichità, fu sconfitta da Atene, prima vera grande potenza talassocratica capace di espandersi nel Mediterraneo grazie al controllo delle sue rotte commerciali principali. In epoca moderna troviamo il fallimento della Francia bonapartista che, dopo la rovinosa sconfitta a Trafalgar nel 1805 per opera della Marina britannica comandata da Nelson, dovette rinunciare a ogni velleità di ergersi a superpotenza globale, lasciando la supremazia mondiale al Regno Unito. Anche la Russia di epoca zarista, a partire da Pietro il Grande, tentò la svolta talassocratica, ma rimase una potenza terrestre. Non riuscì infatti né a espandersi nel Baltico, dominato dai britannici, né a estendere agli inizi del Novecento la propria area d’influenza sull’oceano Pacifico, dove nel 1905 venne sconfitta duramente dai giapponesi al largo di Tsushima. Tra le nazioni che non sono riuscite a trasformarsi in talassocrazia vanno annoverate anche la Germania guglielmina e quella del Terzo Reich, e la Cina, almeno fino a oggi.
L’Impero del Centro ha sviluppato nel corso dei secoli una specie di talassofobia, considerando i mari solo come confini del proprio dominio terrestre. All’origine di questa avversione verso la navigazione per mare c’è anche una lunga storia costellata da numerose azioni navali cinesi finite rovinosamente, spesso per opera del vicino giapponese. La fase attuale segna però una svolta nella strategia di Pechino, con grandi investimenti nella Marina e negli armamenti, per assicurarsi sia la sicurezza dei mari prossimi (Mar Cinese Orientale, Stretto di Taiwan e Mar Cinese Meridionale) che quella delle sue rotte commerciali marittime, passanti per diversi stretti strategici, veri e propri colli di bottiglia nevralgici.
Dopo Atene, Roma, Regno Unito (fino alla Prima Guerra Mondiale) e l’Impero del Sol Levante solo gli Stati Uniti sono riusciti a imporsi come (super)potenza talassocratica grazie alla sua Marina, avviando la terza globalizzazione della storia, ancora in corso, dopo la prima di epoca romana e la seconda risalente all’Impero britannico.
Nelle strategie delle grandi potenze sta tornando oggi centrale la questione del dominio dei mari e degli stretti più importanti. Chi controlla le “onde” domina infatti il commercio internazionale. Si calcola che oggi sull’acqua passi il 90% del peso (oltre 15 miliardi di tonnellate) e il 70% del valore del commercio internazionale. Le principali rotte commerciali marittime sono le arterie degli scambi di merce a livello mondiale e l’Asia, in particolare la Cina, è ormai diventata l’area più importante. Tra i primi 20 porti mondiali nel 2018 per movimentazione di container 7 sono cinesi e tutti nella top ten. Per trovare uno scalo europeo bisogna scendere all’undicesima posizione, dove troviamo Rotterdam, seguita dai soli porti occidentali di Antwerp (13esima posizione), Los Angeles (17esima posizione) e Amburgo (19esima posizione).
La competizione geopolitica-commerciale continua a viaggiare sopra e sotto i mari (si pensi alle reti di cavi sottomarini), con uno spostamento del baricentro verso l’area dell’Indo-Pacifico. Il controllo degli stretti – da Suez a Gibuti, da Panama a Malacca – resta quindi vitale.
Secondo molti analisti il dominio statunitense sarebbe minacciato solo dalla nuova politica espansionistica cinese, che si sta concretizzando con lo sviluppo delle “nuove vie della seta”, sia terresti che marittime. Queste ultime sono viste come arterie oceaniche del progetto “Belt and Road Initiative” (Bri), da cui passano le ambizioni economiche, commerciali, politiche e militari di Pechino. Come scrive Giorgio Cuscito sulla rivista “Limes” (7/2019, p.106): “La dipendenza dai commerci marittimi impatta su almeno tre interessi cinesi: l’esportazione di prodotti all’estero, l’importazione di energia e la sicurezza alimentare”. Il Dragone è sia il primo importatore al mondo di petrolio, che arriva via mare dal Medio Oriente e dall’Africa, sia un grande acquirente di derrate alimentari. La nuova politica espansionista avviata dal presidente Xi Jinping si realizza prima di tutto con investimenti cinesi nelle infrastrutture portuali all’estero: ad oggi le aziende cinesi hanno partecipato al finanziamento di almeno 42 porti in 34 paesi, tra cui anche Vado Ligure in Italia. A fianco alla nuova politica commerciale, Pechino sta investendo ingenti risorse anche nel potenziamento della propria Marina e, dal 2017, ha aperto a Gibuti la prima base di supporto logistico dell’Esercito popolare di liberazione (Epl), l’unica base militare cinese all’estero per proteggere la vitale porta d’accesso verso l’Africa. La politica delle nuove vie della seta, che non conosce limiti geografici, punta anche all’Europa, con cui Pechino vanta un’importante partnership commerciale: l’Ue è il secondo mercato di sbocco dei prodotti cinesi, mentre la Repubblica Popolare è il primo paese da cui l’Ue importa beni.
Al momento la talassocrazia statunitense sembra lontana dall’essere scalzata dall’ascesa della Cina, sia sul piano militare, che tecnologico e logistico. Gli Stati Uniti vantano la Marina più potente al mondo dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi, fattore strategico decisivo che ha permesso a Washington di dominare i mari in questi decenni, garantendo sia una crescita economica globale senza precedenti, sia un deterrente al possibile scoppio di conflitti, su larga scala, tra grandi potenze. Pechino ha lanciato però la sfida, soprattutto sul piano commerciale. Una minaccia che, seppure lungi dal concretizzarsi a breve, mette in discussione la talassocrazia a stelle e strisce.