In questa serie esploriamo i progressi delle Neuroscienze, definendole e cercando di individuarne le basi empiriche e gli obiettivi. I più efficaci modelli di studio riguardano la malattia mentale, probabilmente il grande catalizzatore di tale disciplina.
Siamo abituati a pensare e conoscere le cose, come si faceva cenno nell’articolo precedente in relazione alla nosografia, classificando. Io sono un sostenitore dell’unitarietà della conoscenza. Per quanto possiamo distinguere un discorso filosofico da uno storico o biologico non c’è filosofia, storia, biologia in quanto entità separate, ma un tutt’uno, oggetto e soggetto di studio al contempo. Ciò che va sotto il nome di neuroscienze è un insieme molto vasto che comprende lo studio del funzionamento cerebrale nelle sue molteplici forme, fisiologiche o patologiche. Qualcuno accusa questa concezione di riduzionismo, ma affronteremo e confuteremo tale visione.
Nel progresso della disciplina si è partiti dalla neuroestetica, lo studio dei correlati neurali della percezione e dell’ideazione del bello, per poi sconfinare in tutto il sapere. Non si può parlare concretamente di nulla se non in termini neuroscientifici. Il punto è che non possiamo dire di conoscere se non definiamo la conoscenza, ed alla luce di questa meravigliosa scienza tutte le congetture epistemologiche possono essere verificate o smentite. Ma procediamo con ordine. Cosa ha stimolato lo studio del cervello? Forse le speculazioni filosofiche, ma io sono convinto che passi così impegnativi nel progresso siano chiaramente utilitaristici; è mia opinione che la necessità di dimostrare una base organica della malattia mentale – dallo stesso Ippocrate che sfatò il mito del Male sacro, l’epilessia congenita od indotta da sostanze della Pizia dell’Oracolo di Delfi in favore di un’alterazione patologica spiegabile e quantificabile – abbia dato inizio all’osservazione empirica del cervello.
Tre cervelli
Il cervello umano è uno strabiliante agglomerato di cellule, capaci di funzioni che hanno dell’incredibile. È sede di una miriade di processi, da esso generati o regolati.
Grossolanamente, per esigenza di semplificazione categoriale, possiamo suddividerlo in tre aree in base alla complessità dei compiti svolti, le quali coerentemente corrispondono al loro sviluppo temporale o filogenesi. Le tre aree sono il cervello omeostatico, quello limbico e quello razionale, in ordine crescente di maturazione. Non si tratta di veri pezzi di encefalo, ma di strutture continue l’una all’altra mediante intricatissime interconnessioni, sviluppatesi verosimilmente nell’arco di milioni di anni per specializzazione ed estensione delle capacità di strutture primitive. Possiamo dire ad esempio che la corteccia cerebrale, sede del cervello razionale, è un’acquisizione recentissima, ed è ciò che ci distingue dall’animale, che pure possiede una sfera istintuale limbico-omeostatica senza poter concettualizzarla, astrarla, riconoscerla e dominarla. Proprio questo articolato carattere istintuale si può a sua volta permettere di suddividere gerarchicamente due aree morfofunzionali: il cervello omeostatico è sede dei processi elementari, ed è dunque arcaico, mentre il cervello limbico è più evoluto.
Un modello di sviluppo
Un eccezionale esempio per spiegare la distinzione tra i tre cervelli viene dalla psicopatologia di uno dei disturbi a maggior prevalenza nella popolazione generale: il Disturbo da Attacchi di Panico (DAP). Si stima che circa un quarto dell’intera popolazione mondiale nell’arco della vita esperisca un attacco di panico. È un brutto momento, sono certo che molti di voi lo sanno, ed è spiegato in maniera relativamente esaustiva dalla moderna ricerca psichiatrica. L’accesso è caratterizzato clinicamente da un’intensa sensazione di perdita di controllo, a cui si accompagnano veraci sintomi somatici quali costrizione toracica, vertigine ed ipostenia (perdita di forza, cedimento) delle gambe, parestesie (alterazioni della sensibilità), ed iperattivazione neurovegetativa, con tachicardia e tachipnea, sudorazione profusa. Spesso la paziente (e dico la e non il perché è più frequente nel sesso femminile) si reca in pronto soccorso convinta di essere nel mezzo di un attacco cardiaco. Il tutto si risolve in pochi minuti, ma chi ha sperimentato almeno un episodio (che non consente di diagnosticare il DAP poiché serve la ricorrenza) ben sa che permane una fase postcritica di gravi disagio e preoccupazione. Talvolta si possono anche provare sensazioni bizzarre, quali un senso di estraneità dal proprio corpo o da parte di esso, la cosiddetta depersonalizzazione, oppure rispetto all’ambiente circostante, la derealizzazione. Ciò accade perchè i sistemi neurotrasmissivi inficiati sottendono al senso di sé, della propria integrità corporale.
L’origine neurobiologica del disturbo è esaustivamente documentata in letteratura. Si tratta di un deficit funzionale di gruppi cellulari del cervello omeostatico, che comprende regioni dai nomi funambolici; nello specifico localizzabile a livello del Nucleo Magno del Raphe, produttore di serotonina, ed anche del sistema noradrenergico del Locus Coeruleus, addetti a risposte protettive conservate nell’evoluzione. La risposta in oggetto è quella del soffocamento/annegamento, per cui si attivano in maniera fulminea una serie di funzioni vegetative, quelle descritte in precedenza, esattamente come se il paziente stesse davvero soffocando/annegando.
Tant’è vero che – cosa che si è provata a fare anche in diagnostica – iniettando endovena piccole quantità di lattato o facendo respirare miscele ipercapniche del lattato ed acidificando leggermente il sangue in pratica simulando una ridotta disponibilità di ossigeno (riproducendo le modificazioni biochimiche plasmatiche del soffocamento/annegamento: aumento dell’anidride carbonica ed appunto lieve riduzione del pH), se nel paziente sano non si osserva alcunché, in quello panicato si induce una crisi. Il sistema è troppo sensibile, disregolato.
L’innesco incondizionato e gratuito dell’allarme provoca l’attacco dapprima spontaneo, ma già nel primo episodio si assiste ad una concettualizzazione del fenomeno, prerogativa del cervello razionale. Che cosa significa? Significa che proprio il cervello razionale deve spiegare a se stesso la causa del fenomeno, della cui provenienza non ha in realtà idea, a meno che non sia stato reso edotto dallo studio della medicina. Ecco che compaiono l’ipocondria, ad esempio il timore di aver sperimentato un attacco di cuore. Poi è classica l’attribuzione di significato al luogo ove si è avuto l’accesso.
L’astrazione del vissuto incomprensibile, perché autonomo, porta spesso in assenza di un trattamento specifico a quella che viene definita marcia del panico. La paziente inizia ad adottare condotte di evitamento rispetto al luogo imputato od a luoghi simili, e a provare ogni qualvolta si presenti la possibilità anche ipotetica di recarvisi nuovamente la cosiddetta ansia anticipatoria. Può essere tanto intensa da assumere i connotati di un nuovo attacco di panico, questa volta autoindotto. L’irragionevole senso di colpa, che viene dalla disinformazione riguardo al disturbo di competenza psichiatrica, porta la paziente a rivolgersi solo tardivamente allo specialista, magari quando l’evitamento è tale da averne condizionato l’intera esistenza. Non raramente poi vi sono comportamenti di abuso, ad iniziale scopo di automedicazione, di sedativi, di cui l’alcol e le benzodiazepine, meri sintomatici sovente prescritti dai medici di medicina generale, sono i più facilmente disponibili. Ciò fino al pensiero di morte, nonché alle ideazione e programmazione suicidarie. Deve essere davvero terribile non avere più il controllo di sé, aver paura di uscire di casa. Sovente i luoghi incriminati sono quelli o molto aperti o molto affollati o chiusi e piccoli, insomma privi di veri punti repere o scappatoie. Poi vi è la necessità della presenza di un compagno fobico, talvolta di un oggetto, che fornisce la stabilità che il paziente non può trovare in sé. Si badi che non sto escludendo che gli attacchi possano comparire in periodi particolarmente stressanti, anzi sottoscrivo, influenzando grandemente gli ormoni dello stress, cortisolo in primis, questi pathway biologici.
Se il paziente arrivasse per tempo all’osservazione competente, una terapia solitamente a base di paroxetina – la quale supplisce al deficit serotoninergico per qualche mese sino a che il sistema si riorganizzi adattivamente e non se ne ha più bisogno – impedirebbe il percorso che può complicarsi per demoralizzazione sino all’alcolismo secondario od al suicidio, vi assicuro non così raro. Altrettanto importante in quadri già avanzati è il percorso neuropsicologico, basato sull’esposizione graduale ai luoghi temuti ed alla desensitivizzazione dagli stessi. Raramente invece il disturbo va in remissione autonoma, e nonostante il soggetto continuerà a presentare quella suscettibilità, riprende la sua vita senza conseguenze in assenza di trattamento.
Che cosa ci insegna la psicopatologia del Panico? Ci insegna che le regioni cerebrali più e meno nuove sono interdipendenti, e non passa informazione all’una se non ha sostato per un po’ nell’altra. Pensiamo forse ad accelerare il battito cardiaco prima di un colloquio di lavoro? Certo che no, il tutto è spontaneo ma dipendente da uno stimolo concettuale: l’occasione di essere assunti.
Cervello limbico
Il cervello omeostatico perciò ha funzione più che altro di supervisione di attività autonomiche: il battito del cuore, che si autogenera nel nodo seno-atriale, il respiro che ha anch’esso controllo un po’ vagale un po’ catecolaminergico a livello del tronco encefalico, la digestione in cui sistema nervoso (chiamato Sistema Nervoso Enterico) riproduce e supera in numero i trasmettitori prodotti nel cervello. In generale tutte le modificazioni cui andiamo incontro prima di un appuntamento importante, o quando un ippopotamo infuriato si accinge a caricarci nel parco tanzanese dello Tsavo (cosa capitatami davvero), vengono elaborate a tre livelli. Sono inizialmente preconsce, essendo pertinenti al cervello limbico (intermedio tra l’omeostatico ed il razionale); poi, dopo aver innescato l’accelerazione simpatica del ritmo cardiorespiratorio, ridotto drasticamente la peristalsi gastrointestinale per dedicare tutte le energie ai muscoli al fine di scappare o combattere, vengono concettualizzate. Allora penserò: “Cavolo, c’è un ippopotamo che mi sta caricando!”.
Chi l’avrebbe mai detto che proprio l’ippopotamo è l’animale imputato del maggior numero di vittime umane? Avrei pensato killer con maggior successo il grande squalo bianco, la vedova nera, il serpente tigre australiano, e invece no. Quel goffo abitante di stagni è abbastanza veloce da raggiungere Bolt in pieno slancio! Insomma, se andate a fare un safari e vi trovate in prossimità di una pozza vi consiglio caldamente di rimanere sulla jeep.
In quel caso indubbiamente la mia amigdala, un piccolo nucleo pari e simmetrico nei pressi del centro del cervello e principale deputata ai segnali di paura, si era attivata. È questo uno dei protagonisti del cervello limbico, essendo la risposta adattiva di tipo fight-flight-fright (più o meno combatti-scappa-spaventati) la più utile in natura.
Ci sono molte altre componenti, classificate dal neuroscienziato estone-americano Jaak Panksepp in sette complessi emozionali di base, ovvero appartenenti al cervello limbico. Sono, oltre a quello della paura/ansia, fin troppo noto a coloro che soffrono delle più svariate fobie, dai ragni ai pagliacci, quelli di:
— ricerca, atti all’esplorazione ambientale ed al rinforzo delle strategie positive e all’eliminazione di quelle negative,
— della rabbia, assimilabile alla necessità di difesa o di competizione sessuale,
— del desiderio/sessualità,
— dell’accudimento/tristezza, fondamentale nella cura dei nascituri e nell’empatia, quindi nelle relazioni sociali dal branco di gnu al Welfare occidentale
— della separazione/panico, che darebbe la necessaria spinta all’interazione, a sforzarsi di essere accettati nella comunità,
— del gioco/gioia.
Prendiamo ad esempio quest’ultimo; non è forse vero che i piccoli ghepardi imparano a cacciare giocando? Mamma ghepardo, che investe un capitale energetico nella venagione solitaria, tramortisce il cucciolo di gazzella affinché la sua progenie ci giochi un po’, lasciandosela magari anche scappare. E non è forse vero che l’uomo apprende giocando?
Il genio di Jean Piaget, fondatore del cognitivismo, individuava in La formation du symbole chez l’enfant: imitation, jeu et rêve, image et représentation, osservando anche i suoi figli, essenzialmente tre stadi dello sviluppo del gioco. Essi corrispondevano coerentemente alla maturazione della socialità, oltre che delle funzioni cognitive quali memoria, attenzione, capacità esecutive.
Nel primo anno di vita il bambino ottiene gratificazione dall’acquisizione e dal controllo dei circuiti neuronali preposti alla motricità, e infatti batte le mani, scuote il sonaglio, afferra le dita di chi gli borbotta qualcosa di mieloso e demenziale. Poi inizia a sviluppare la sua capacità simbolica, di astrazione, clonando insomma mediante dei vettori (i giocattoli) delle situazioni reali, ad esempio coi soldatini o con le bambole. Dai sette anni circa in poi riproduce ancor più fedelmente degli schemi sociali, e gioca a nascondino o a pallone, con regole sempre più rigide: cooperazione e competizione.
Cervello razionale
Dalle emozioni di base, limbiche, si arriva al top della corteccia, circonvoluta, ripiegata per aumentare la superficie disponibile nello spazio limitato della scatola cranica. Qui vengono prodotte, sempre mediante il rilascio di neurotrasmettitori e la depolarizzazione neuronale, le emozioni sociali. La necessità di avere un figlio può essere governata e repressa, ma rappresenta un bisogno biologico primordiale inscritto nel genoma, e primitivamente elaborato dal limbico. L’invidia poi non è altro che l’evoluzione simbolica dell’aggressività che al suo stato primitivo porta i leoni marini ad infliggersi gravi ferite per la femmina, non dissimile dal desiderio ossessivo degli arrampicatori sociali, poiché tutta la selezione sociale è essenzialmente selezione sessuale. Addirittura, come Darwin insegna, essa è più forte del pericolo di morte, ed avrebbe portato numerose specie animali ad adottare colori sgargianti per attirare il partner, nonostante ciò li renda molto più individuabili dai predatori. Il soggetto in questo contesto non è il protagonista, ma è un depositario del vero artefice del suo comportamento, il genoma. Il problema è come si realizzino i meccanismi che dai geni portano al sentimento.
Indubbiamente l’amore, sia esso romantico o genitoriale, è una delle esperienze più gratificanti che la vita regali (per lo meno quello corrisposto). È una vera e propria droga endogena, associata al rilascio del neurotrasmettitore dopamina, come abbiamo visto nel circuito del reward-gratificazione. Questo intricato insieme di neuroni comunicanti avviene trasversalmente ai tre stadi dello sviluppo cerebrale, includendo zone vecchie e nuove. Sicuramente possiamo innamorarci del fascino di qualcuno, addirittura in assenza di un’estetica gradevole, e questo è prettamente sociale, corticale. Tale innamoramento deriva dall’assunto, non totalmente conscio, che quelle particolari caratteristiche (diciamo il carisma, il savoir-faire) saranno utili qualità al/del nascituro.
Alla risonanza magnetica funzionale degli innamorati, esame che permette di vedere come funziona il cervello, specialmente quando pensano al partner, si attivano molte altre aree, come le suddette regioni limbico-striatali, antiche, e l’ippocampo in cui risiede la memoria.
L’amore attua risposte a più livelli, dalla pianificazione per conquistare il partner all’attivazione autonomica, le famose farfalle nello stomaco e il cuore che batte soprattutto in sua presenza. La mente poi comunica col corpo e si serve di stazioni strategiche: due ormoni, chiamati vasopressina ed ossitocina, prodotti da un nucleo fondamentale per l’omeostasi chiamato ipotalamo, ed immagazzinati entro un ‘prolungamento’ del cervello fuso con una ghiandola endocrina, l’ipofisi. Essa produce ormoni sulla base dei segnali neuronali, che regolano se stessi mediante un meccanismo a feedback negativo. Quando ad esempio produco tanto cortisolo, in situazioni stressanti, esso va direttamente ed indirettamente ad inibire il rilascio dei suoi precursori ipotalamici ed ipofisari, in pratica di sé. È curioso che l’ossitocina, tanto per fare un altro esempio, associata alla genesi del sentimento dell’attaccamento, sia prodotta da entrambi i sessi durante l’esperienza dell’orgasmo (ed è ciò che rende difficile salvo eccezioni da elaborazione corticale l’essere friends with benefits o ‘compagni di letto’), ma anche durante il parto e l’allattamento. Stimola infatti la contrazione del corpo e del fondo dell’utero, motivo per cui ne viene spessissimo somministrata di esogena nel travaglio. Fornisce impulso anche all’aumento volumetrico delle cellule galattotrope dell’adenoipofisi, le quali producono prolattina, che agisce sulla ghiandola mammaria per indurre la galattogenesi (la formazione del latte materno). Il suo mantenimento è provocato dalla suzione dell’areola mammaria, con un meccanismo feedback questa volta positivo, tant’è vero che si può allattare anche a lungo in presenza dello stimolo.
Questo è un cenno di strategia evolutiva, che ogni tanto funziona male. L’amore romantico ad esempio, che è epifenomeno dell’istinto sessuale, può risultare disfunzionale allo scopo.
Fabio Villa
Nato a Monza nel 1986 e si è laureato in medicina col massimo dei voti presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
Durante gli studi si dedica ad attività di volontariato in Italia ed all’estero (India, Nepal, Mali, Rwanda, Brasile, Cambogia).
Dopo tre anni di formazione chirurgica nel dominio cardiovascolare, ed un master in economia che l’ha portato in università quali Harvard e Fletcher, si è trasferito a Ginevra, ove si dedica all’esercizio della Psichiatria e Psicoterapia ed in parallelo a svariati progetti.
Vanta prestigiose pubblicazioni sulle più autorevoli riviste scientifiche, tra cui The New England Journal of Medicine.
Si dedica inoltre alla filosofia delle scienze ed alla storia delle religioni. Nell’aprile 2014 pubblica il libro Il Placebo. Viaggio nell’Idea di Dio (Aracne) nella collana Atene e Gerusalemme diretta da Giuseppe Girgenti, professore di Filosofia Antica ed allievo di Giovanni Reale.