L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi per vedere. (Marcel Proust, 1913)
Il giro del mondo in ottanta giorni? No, molto ma molto meno.
Il “viaggio” è ben più breve, ma non per questo privo di brivido e avventura. A volte basta girare l’angolo per scoprire che è il mondo, inteso come umanità differente a trovarsi a pochi passi da noi. Il visto in televisione si materializza davanti ai nostri occhi e avvertiamo netta la sensazione di trovarci in un momentaneo altro luogo.
Mescolato a persone provenienti da ogni dove percorro Via Padova; all’inizio la zona appare anonima, subito dopo i primi numeri civici, lasciandomi alle spalle piazzale Loreto vengo travolto da un tripudio di colori e odori che raccontano il mondo. Leggo insegne e cartelloni pubblicitari in arabo, in giapponese, in cinese. Si respira l’odore di cibi speziati, si sentono musiche e ritmi che rimandano a terre lontane. Tutto quel vociare o quei preoccupanti silenzi è come se facessero da colonna sonora al mio “viaggio” metropolitano.
Le lingue parlate, un miscuglio, dall’arabo allo spagnolo, i dialetti tanti e tali, l’uso amplificato della parola rendono l’idea di una rappresentazione messa li in scena per turisti capitati per caso.
Via Padova, a Milano, è lunga qualche chilometro, sono tante le etnie che si sfiorano tollerandosi, come devo aver letto da qualche parte “una sorta di Nazioni Unite del tirare a campare”, cemento, vecchie palazzine dai muri scrostati e asfalto, un laboratorio a cielo aperto di antropologia e convivenza forzata. Se qualcuno mi chiedesse un esempio di globalizzazione saprei fornirgli almeno un indirizzo.
Incontro sudamericani, sono tanti e non si risparmiano nel bere qualsiasi cosa che sia alcolica.
Più in la sul lato opposto del marciapiede nordafricani giovani, giovanissimi, sono tanti, incavolati e mi dicono gestiscano lo spaccio della droga, meglio stargli alla larga.
Cinesi, quanti ne vuoi, numerosi e silenziosi, lavorano ininterrottamente come formiche, non spiccicano una parola in italiano neanche sotto tortura e come altrove gestiscono di tutto dai ristoranti a basso costo, alle case di “piacere” sotto forma di centri benessere curiosamente abbinati a sartorie, in sostanza una sorta di lava e cuci.
Passanti simili a comparse venute fuori da un film di ambientazione, nazionalità non sempre intuibili, indossano costumi tradizionali con indifferente noncuranza per gli sguardi dei pochi non abituati.
Italiani proporzionalmente pochi, e quei pochi parlano un “italiano” che risente di origini non meneghine, in un angolo scorgo una pizzeria partenopea che racconta della Milano del secolo scorso quando dalle terre del meridione d’Italia in un epoca di boom economico bracciati e talentuosi venditori di merci varie diventati poi “commercianti” con furbizia e capacità levantine si affermarono, ora via Padova è sempre li, ma il boom è lontano.
E’ nelle strade laterali che il “viaggio” diventa non privo di emozioni, lontani dalla via principale illegalità e degrado non mancano, perché li c’è di tutto in pieno giorno e alla luce del sole, spaccio, prostituzione e cumuli di rifiuti.
Ti guardi in giro, alzi gli occhi e vedi palazzi che conservano tracce di un passato migliore, qualcosa cade dall’alto ma non mi fermo ad indagare. Tra me e me mi dico:” non sbagli se pensi di essere un po’ confuso, sono quelle strade trasversali a disorientarti”, un gruppo di ragazzini egiziani indossa magliette di squadre di calcio italiane, vetrine a piano terra utilizzate per esporre corpi come mercanzia, non ci vuole molto a capire che quelle che apparivano a qualche decina di metri “fate” in realtà sono “fatte” (drogate) o “rifatte” in quanto il loro genere natio si è modificato grazie ad abili chirurghi estetici, “invitanti” voci in falsetto non riescono a mascherare il travestimento … che mondo, mi dico. Vedendomi un po’ frastornato un ragazzo di colore si avvicina e mi chiede se voglio del “fumo”, quello buono dice, lo guardo e da fesso gli rispondo: “grazie, ho smesso, non fumo più”, quello per tutta risposta si allontana indirizzandomi colorite imprecazioni in lingua che non capisco. Tutta questa umanità da triste carnevale mi distrae, sento alle spalle un clacson (inconsciamente sono sceso dal marciapiede) e uno mi urla con ac
cento sudamericano “fuma meno”. Alzo il passo per tornare su Via Padova, all’angolo quando già mi sento “salvo” un magrebino stà litigando con un trans e nel frattempo interviene un venditore credo senegalese a fare da paciere, nessuno parla italiano, ma si capiscono a gesti e frasi un po’ distorte. Incontro ancora cinesi o perlomeno asiatici, è come se fossero muti, guardano con indifferenza e poco dopo si imbucano in un salone da parrucchiere da cui escono clienti con acconciature spaziali.
E’ difficile restare indifferenti transitando in questa via che collega il centro di Milano alla periferia Nord, è difficile non annotare le storie di questo strano mondo a se stante, la droga, la prostituzione, le lame, gli scontri tra bande di diverse etnie, Via Padova con tutti i suoi “pericoli” è pur sempre un posto dove si sente che la vita scorre calda e pulsante.
Qui ci passa il bus 56,( il biglietto costa 2,00 euro) quando sali a bordo ti chiedi “dove sono?”, madri indiane velate, donne di religione mussulmana intabarrate e mascherate, etiopici, venditori filippini, altri che salgono con una infinità di mercanzie scambiando il bus per un camion adibito ai traslochi e poi un vispo anziano dallo spiccato accento pugliese che si guarda intorno e dice sottovoce “che gente”. In tanti prendono la 56, non tutti obliterano il biglietto tant’è che il rumore dell’obliteratrice allarma qualcuno dei presenti quasi un attentato terroristico, mi guardano stupiti e qualcuno sorride. Un luogo, una specie di arca di Noe la 56, un luogo dove colori, lingue e odori si intrecciano ed evocano luoghi lontani, improvvisamente tutti vicini, gomito a gomito. Un viaggio sulla 56 verso, attorno, dentro, ai confini, attraverso e … tanto altro ancora.
Un viaggio, sia pur breve, è smarrimento, Via Padova a Milano è così, una terra di mezzo che è li in attesa di essere animata dalle storie che l’attraverseranno. Non è la mia zona, ma la sensazione e che imboccandola attraversi una porta girevole dove ognuno ha il suo Dio e lo chiama come vuole.