La storia non si fa con i “se”. Un’espressione che ci siamo sentiti ripetere un’infinità di volte. Eppure, forse, non è proprio così. Proviamo a spiegarne il perché con un esempio classico. L’evoluzione dell’umanità sarebbe stata diversa da come si presenta oggi “se” il 12 settembre del 490 a.C. le sorti della battaglia di Maratona fossero state diverse, ovvero “se” gli Ateniesi avessero perso quella battaglia? Lavoro, questo, per sociologi. La metodologia di analisi sociologica può darci una risposta certa. Il risultato finale del processo di studio di come la storia si sarebbe potuta evolvere “se” si fosse verificata quella circostanza, ci porta inequivocabilmente ad affermare che: si, lo sarebbe. L’analisi delle situazioni che si sarebbero venute a determinare, e lo sviluppo dei loro possibili intrecci, ci dicono che la cultura si sarebbe sviluppata sotto l’influenza orientale e l’Occidente, così com’è oggi, non sarebbe mai nato.
E cosa sarebbe accaduto “se” Hitler avesse vinto nella seconda guerra mondiale? E qui si ricomincia con le analisi. Il mondo, oggi, sarebbe sicuramente ben diverso da come lo conosciamo.
E’ ovvio che non un singolo episodio determina un’intero corso storico. Sono molteplici i fattori che intervengono nel processo. Pur tuttavia, come ci spiega anche la teoria del Caos di Levin, ogni singolo episodio, seppur minimo, ha una sua valenza in quel processo che porta alla costruzione di una realtà storica.
Lo sanno bene gli strateghi ed i pianificatori, il cui compito è quello di valutare in anticipo le ripercussioni e quindi le possibili conseguenze di ogni azione messa in campo.
Anzi, il loro compito è proprio quello, rovesciando i termini dell’analisi sociologica descritta, di porre in essere azioni le cui conseguenze portino dritti al risultato che si sono prefissi di raggiungere. Militari, scienziati, economisti, managers, si muovono in questo senso e operano analizzando impressionanti sequenze di dati, che trattano con modelli matematici per limitare i margini di errore, e determinare con più precisione possibile gli scenari futuri che intendono costruire.
Le grandi aziende si dotano di centri studi e strutture di marketing in grado di prevedere gli sviluppi, anche a lungo termine, dei mercati e, quindi, di organizzare opportunamente la produzione. Le piccole aziende, sebbene in misura minore, proporzionalmente alle disponibilità finanziaria di cui dispongono, cercano di fare la stessa cosa. Chi non lo fa è spacciato. E’ presto fuori mercato.
Anche tutti noi, nel nostro piccolo, ci muoviamo nello stesso senso. Sulla scorta di calcoli e previsioni che la nostra personale esperienza ci consente, cerchiamo di prevedere quello che ci aspetta nel futuro e organizziamo le nostre scelte in funzione dei risultati che vogliano conseguire. Lo fanno anche le massaie che devono valutare le conseguenze per la cassa familiare dei prodotti che scelgono di mettere nel carrello della spesa.
Guardando alla politica, però, la domanda sorge spontanea: ma i nostri governanti, sono consapevoli di quelle che saranno le conseguenze delle loro scelte?
A quanto pare, visto per esempio il risultato prodotto dalla cosiddetta Legge Fornero con il fenomeno degli esodati, esempio certamente non unico nel panorama politico nazionale, non lo sono affatto.
La recentissima sentenza della Corte Costituzionale con la quale si dichiara illegittimo il il blocco della rivalutazione degli assegni decisa nel 2011 dal governo Monti per le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo Inps, cioè poco più di 1500 euro, conferma che le scelte politiche destinate a determinare il futuro delle genti sono spesso assunte senza una vera consapevolezza dei possibili scenari futuri che inevitabilmente andranno a generare.
E non vale la giustificazione che “in quel momento era necessario farlo per evitare il default delle pensioni”. Perché questo può significare una sola cosa: pianificazione zero.
L’effetto “mani pulite”, unitamente al crollo del muro di Berlino e conseguente crollo delle ideologie, ha generato quel vuoto politico occupato da un altro potere dello Stato prima, e da un neonato mondo politico inadeguato poi.
Il vecchio sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica è scomparso e al suo posto abbiamo visto il proliferare di tutta una serie di nuove formazioni politiche la cui parabola discendente è iniziata ancora prima di nascere, perché nate solo per occupare il vuoto, o i vuoti di potere. Nate senza idee, senza valori, senza alcun piano di intervento a lungo termine, fine a se stesse, hanno generato nuovi politici che hanno sostituito i vecchi che, qualche volta, ci tocca rimpiangere.
Si dice che la differenza tra un politico e uno statista consista nel fatto che il politico si occupa del contingente, mentre lo statista lavora per le generazioni future.
Non sono d’accordo. Ogni politico deve studiare gli scenari sociali ed economici futuri, essere in grado di pianificare l’azione per evitare le situazioni negative che si possono generare con scelte inopportune, e porre in essere le misure necessarie a determinare quel futuro che sarà il frutto delle sue scelte. Il politico deve sapere in anticipo, corroborato da studi e analisi serie, cosa accadrà “se” opererà una tal scelta piuttosto che un’altra.
Il politico, a qualunque livello, deve pensare alle generazioni future, deve lavorare per il futuro, deve essere anche statista.