La violenza psicologica nelle relazioni di coppia tra adolescenti è più presente di quanto si possa immaginare.
L’adolescenza è una età complessa, fatta di trasformazioni che abbracciano anima, corpo e psiche, invitando ad una costruzione identitaria nuova, che renderà quell’essere umano unico ed irripetibile. È un’epoca transitoria che sospende, divide, taglia a metà, obbligando a prendere le distanze dall’infanzia, accorciando quelle con i pari.
Cresciuto in un tempo caratterizzato da una certa ipertrofia narcisistica, l’adolescente di oggi è fragile e spavaldo al tempo stesso. Si ritrova solo di fronte all’Altro, Altro del cui contatto sente fortemente il bisogno, Altro che diviene anche sessualmente interessante, Altro che non sa come trattare.
La questione si complica, poiché oggi abbiamo adolescenze precocissime, dove ragazzine e ragazzini di 11-12 anni si comportano come adolescenti pur non avendo ancora raggiunto la pubertà.
Colpiscono statistiche come quella ad opera dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza del 2017 che racconta di una adolescenza violenta, dove l’Altro è trattato con violenza. Su 11500 adolescenti, il 20% ha dichiarato di avere un partner controllante, il 16% è stato obbligato a cancellare i contatti sui social network, 7 su 100 hanno dovuto condividere le password, 2 su 10 hanno subito violenza psicologica, 2 su 50 violenza fisica. Trattasi di Teen Dating Violence. Se è vero che l’amore ha una grande valenza nella vita di un giovane, poiché le relazioni amorose incidono sullo sviluppo dell’autonomia personale, sull’autostima, sull’immagine della propria forza attrattiva, i lati oscuri di relazioni di coppia all’insegna di un presunto amore rischiano di minarne profondamente l’identità in via di sviluppo.
Nella statistica prima presentata svettano comportamenti aggressivi, che spaziano dalla violenza fisica (aggressioni corporee come schiaffi, strattoni, pugni, calci, sputi o lanci di oggetti) alla non meno grave violenza verbale (insulti, umiliazioni di vario tipo). La violenza psicologica fa da cornice, una violenza sottile non sempre immediatamente focalizzata, sia perché subdola e manipolatoria, sia perché schiacciata dal terrore dell’abbandono che ha la meglio. Il partner violento finisce, così, per sguazzare in dinamiche di cui ha ampio controllo: vestiti, amicizie, social network, tutto è sottoposto a revisione. Dall’imposizione di un certo abbigliamento all’isolamento sociale, dal controllo dei contatti sui social network alla richiesta di condivisione delle password, dall’insulto alla sberla, da messaggi continui a telefonate insistenti, dalla richiesta di foto intime alla minaccia di diffonderle nella rete, da urlatacce ed episodi di svalutazione in pubblico a musi prolungati… Non viene disdegnata nemmeno la violenza sessuale, intesa come tutte quelle attività sessuali imposte al partner contro la sua volontà, quali rapporti sessuali con la forza o senza protezioni.
La precocizzazione delle relazioni affettive crea inevitabile disorientamento, perché i giovani si calano in una relazione di coppia senza un adeguato vissuto e sviluppo. I giovani stessi riconoscono una certa impreparazione nel gestire i primi rapporti, dove l’incapacità di delineare i confini tra scherzo, pressione e abuso pare essere il nodo gordiano.
Normalizzare la violenza è il primo grande tranello. Lasciarsi irretire da stereotipi di genere è il secondo. Credenze quali “l’amore è fatto di gelosia”, “alzare le mani sulla propria ragazza è un atto di virilità”, “i maschi, si sa, sono aggressivi”, “la violenza è tollerabile, perché tanto so che mi ama”, ed altre simili, finiscono per legittimare la violenza fisica, verbale, psicologica, consegnando alla mansuetudine.
Se è vero che le caratteristiche individuali incidono (irritabilità, aggressività, inefficaci meccanismi di regolazione emotiva da una parte e insicurezza, sottomissione, bassa autostima, paura dell’abbandono dall’altra), entrare nel merito del contesto familiare è inevitabile.
I modelli di interazione sociale appresi nel corso della vita sono, infatti, tanto significativi da essere predittivi di futuri comportamenti nelle relazioni intime, sia in senso positivo che negativo. Uno stile genitoriale autoritario, per esempio, eccessivamente rigido, critico o svalutante, fatto di un’autorità meramente repressiva e disciplinare, abitua quel figlio alla violenza. Sentirsi dare della puttana o del cretino ha un peso, perché le parole marcano. Ricevere pugni e schiaffi ha un peso, perché le botte affossano. L’insulto di un genitore verso un figlio può perseguitare quest’ultimo fino nell’adultità. I colpi di un genitore verso un figlio possono consegnarlo alla percezione che la violenza sia parte scontata di una relazione.
Respirare violenza domestica fatta di genitori rissosi presenta lo stesso amaro premio: se da bambini l’aria di casa era infestata dalla brutalità, scivolare in comportamenti abusanti, una volta adulti, è la conseguenza affatto insolita di una realtà che si è fatta abitudine. Nelle relazioni di coppia che instauriamo cala l’ombra di ciò che abbiamo vissuto nel là e allora.
La violenza ha una storia alle spalle, dove il contesto socio-culturale di appartenenza fa la sua parte. Se questo è permeato di una visione patriarcale dei rapporti maschio-femmina, che si declina in una sistematica sessualizzazione e svalutazione del corpo femminile, azioni violente dei maschi a danno delle femmine finiscono per essere cronaca di una morte annunciata.
La prevenzione paga sempre. Bisogna, allora, parlare con i giovani, evitando le semplificazioni, ma trovando le parole per annientare quel malinteso concetto di natura, di esseri umani predatori e esseri umani prede. Bisogna soprattutto farlo presto, perché un adolescente rischia di rimanere invischiato nel piacere che ricava dall’esercizio della propria forza, sia essa fisica o psicologica.
Gli adulti devono esserci, non possono sottrarsi al proprio ruolo educativo. Ciò significa innanzitutto sviluppare sensibilità e vigilanza, aiutando i giovani a rileggere le loro relazioni.
Genitori controllanti e invasivi o, per contro, disingaggiati che non intervengono di fronte a questioni delicate, non sono il migliore supporto a cui aspirare. I primi allontanano con la loro ingerenza, i secondi abbandonano con la loro omertà.
Mi piace citare il pensiero di Massimo Recalcati, che insiste sulla necessità del ritorno del Padre, intendendo non tanto la sovranità del padre-padrone ma del padre-testimone capace di testimoniare, appunto, come si possa stare al mondo con desiderio e al tempo stesso con responsabilità.
Il dialogo tra genitori e figli rimane lo strumento principe, perché basato sulla stima del pensiero dell’adolescente, dove il messaggio “ci sono, mi interessa ascoltarti e conoscere ciò che hai dentro” funge da perno per potenziarne conoscenze e abilità, promuovendo fiducia reciproca. Un dialogo franco, sebbene il dialogo di per sé non è condizione sufficiente per la formazione, ma diventa un elemento di spicco quando c’è un genitore che si assume la responsabilità di mettere i punti.