La salute psicologica non è di serie B
Ogni tanto il gioco della vita si inceppa ed il rischio di essere giocati dalla vita fa capolino. Quando il gioco tenta di superarci, guardiamo agli eventi sgraditi come a ladri venuti a derubarci di tutto il mobilio. Tristezza, rabbia, vergogna, risentimento, ansia, paura, autocritica, diverse le emozioni scomode che subentrano. A volte la critica verso il mondo si fa feroce, a volte è l’autocritica a farsi atroce. In entrambi i casi, il lascito è una sensazione di implosione.
Ma la vita raramente si svolge su un piano ideale: nella capacità di dare il benvenuto alla folla venuta a mettere a soqquadro la propria casa, sta la possibilità di una feconda ristrutturazione.
Trattare onorevolmente tutti gli “ospiti”: ci vuole amorevolezza.
Accettare quello che non può essere modificato, trasformare gli ostacoli in sfide, collocare il passato nel passato, progettare il futuro desiderato: tutta roba difficile, ma è tutto ciò che resta. Difficile, soprattutto quando sullo sfondo aleggiano un passato deprivante, credenze limitanti, distorsioni cognitive, emozioni incombenti, ragionamenti dicotomici sullo stile bianco-nero che non fanno i conti con le cinquanta sfumature di grigio. Mentre la vita è un insieme di sfumature.
Ci vuole benevolenza, ci vuole competenza.
A volte il malessere è di vecchia data. Chissà quando è cominciato. Corpi sempre in allerta, smangiati da ricordi di vergogna legati all’infanzia, corpi irretiti in traumi irrisolti, persi in moti di perenne difesa, di fiaccante attacco, di feroce autodisprezzo, di aggressiva inadeguatezza… Corpi che hanno perso il contatto con un Sé positivo, che hanno annegato il ricordo di momenti buoni, che si sono negati la vicinanza con la migliore versione di se stessi.
E tu come stai?
Essere in contatto con la parte oscura della mente è talmente doloroso che la tendenza all’evitamento è una risposta comune. E così quella agisce sottobanco indisturbata.
Ho imparato che per attraversare le fiamme a testa alta, ci vuole un Sé compassionevole, capace di avvolgere nel manto della fiducia ciò che di sé si disprezza, ciò che della vita si scarta.
Accudimento, saggezza, gentilezza, impegno: le armi per affrontare la paura.
Chi non ha bisogno di aiutare la psiche a capirsi, accertarsi, affrontare la realtà? Imparare a starsi vicino con amorevole gentilezza giova a chiunque. Scegliere la compassione per se stessi non ha niente a che fare con il farsi pena, significa piuttosto aprirsi alla propria sofferenza, il che non è necessariamente semplice, immediato, scontato.
Per chi non si è mai sentito nel posto giusto, in un posto sicuro, al proprio posto, la parola compassione potrebbe costituire un’astrazione priva di significato, fino a generare distanza, disagio. Perché chi non ha ricevuto gentilezza si aspetta rifiuto, chi è annegato nell’insolenza si aspetta arroganza. La compassione fa paura. Per loro la compassione diventa una conquista.
“Pati com”, ‘comunanza di dolore’. Rivolgersi parole buone, abbandonare la ferocia, soffocare il giudizio, dedicarsi la stessa buona lingua che rivolgeremmo ad un caro amico in difficoltà. Quali voci? Le tue, le migliori per te, quelle che non hai mai ricevuto, quelle che avresti desiderato, quelle che non osi dedicarti preso come sei a colpevolizzarti, quelle che rivolgeresti ad un bambino triste, quelle che senti significative ogni volta che ti guardi allo specchio e senti il bisogno di una carezza sulla testa, quelle che leniscono, quelle che forse nemmeno conosci, perché non ne hai mai respirato il profumo.
Ma quando quello si sparge nell’aria, allora dentro qualcosa cambia, qualcosa che ha base fisiologica, perché dare e ricevere compassione cura. È una questione di variabilità della frequenza cardiaca (HRV), di emozioni rilassanti connesse, di controllo appropriato da parte della corteccia prefrontale del sistema di difesa dalle minacce, di reazioni adeguate allo stress. Il tono vagale aumenta e con esso emozioni buone prendono posto.
È certo che la qualità e la quantità di esperienze che viviamo all’interno della nostra vita incidano sulla nostra salute. Incarnare e lasciar fiorire un Sé compassionevole vuole il coraggio di scendere nell’esperienza umana, coltivando comprensione di ciò che siamo, di come abbiamo attraversato le esperienze del passato, di come queste influenzino ancora oggi la relazione con noi stessi, con noi stessi e gli altri.
Allenare il cervello a pensieri compassionevoli verso di sé, come verso gli altri, può aver bisogno di una guida. Perché la compassione soccorre, comprende, cura, salva, ma dedicarsi gentilezza è ancor più difficile che dedicarla, per chi ha respirato rifiuto, per chi guarda al fallimento con ferocia.
Scegliere l’umanità ha bisogno di tempo. Per farlo non devi aspettare di toccare il fondo.
Prendersi in carico, aversi a cuore: questo è ciò che conta.
Tre sassolini lungo la via: Lama Michel Rinpoche, Nicola Petrocchi, Paul Gilbert. Mi piace sempre rendere omaggio a chi ha permesso a me di imparare a volermi bene, maestri, autori, colleghi, letture fortuite quanto fortunate che hanno lasciato un segno nella mia anima. A voi lascio il viaggio.