Resistere alla pulsione di morte: il supporto psicologico quale chance.
C’è pulsione di morte nell’aria: oggi, c’è una stretta correlazione tra la perdita del lavoro e l’aumento dei suicidi.
Chi ha contratto il Covid è soggetto ad un rischio maggiore di problemi di salute mentale: il 35% di pericolo in più di avere disturbi d’ansia, il 39% di disturbi depressivi, il 41% di disturbi del sonno, il 55% di assunzione di antidepressivi, il 34% di un disturbo da uso di oppioidi, il 20% di un disturbo da uso di sostanze non oppioidi, un rischio dell’80% superiore di deterioramento neurocognitivo di nuova diagnosi.
È psicopandemia. I dati sono riportati dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi: “È arrivato il momento di agire, intervenendo con politiche appropriate. Abbiamo creato una Task Force a livello nazionale per prevenire i casi di suicidi”, suggella Davide Lazzari, Presidente dell’Ordine degli psicologi.
Chi sono quegli esseri umani che se ne vanno per sempre? Deserto affettivo, presente muto, creatività estinta, solitudine frammentata, insignificanza dell’esistere, assenza di speranza, disgregazione, impressione di essere in un tunnel, in apnea: terreno fertile per la crisi interiore, ma anche per una crisi dei fondamenti della nostra civiltà. La pensabilità della propria morte schiude una fantasia che legge nell’irreversibilità del gesto suicida la possibilità di donare senso alla propria non-vita, un’esistenza che si è chiusa al desiderio, che guarda al gesto “scandaloso” per eccellenza come all’unica possibilità per placare emozioni e pensieri intollerabili.
Laddove non c’è elaborazione psicologica delle proprie ansie, preoccupazioni e paure, c’è débâcle interiore. Sullo sfondo una profonda perdita di motivazione, l’assenza di visione del futuro, un sentimento di impotenza confusivo, la sensazione di danno a braccetto con la beffa, la percezione di essere poca cosa gettata al mondo. È così che quella pulsione che si contrappone all’Eros, e protende per la morte, finisce per insinuarsi nelle pieghe dell’anima, lasciando vagheggiare il ritorno ad uno stato inorganico in cui cessano le tensioni e l’anima può deporre le armi, lasciando che quella fatica di vivere, o di sopravvivere, ceda il passo al sonno eterno.
La scelta della morte muove spesso indignazione in chi funge da testimone, come se compiere il più proibito dei gesti colpisse, ferendo, anche chi vi assiste: “Se lo ha fatto lui, potrei farlo anch’io”. Il dilemma riguardo alla pensabilità della propria morte genera sgomento.
Si guarda spesso al suicidio come ad un gesto eclatante dimostrativo “riuscito”, come se nelle reali intenzione vi fosse, invece, il suo fallimento: non si voleva morire veramente ma la cosa è sfuggita di mano, spegnendo per sempre la fantasia sottesa, ovvero la rinascita, l’uscita dall’angoscia, un cambiamento del proprio scenario di vita, la risoluzione dei conflitti interiori. Una fantasia di vita si celerebbe, dunque, tra le pieghe del desiderio di morte.
Certamente l’impossibilità del desiderio, la presenza dell’assurdo, pongono all’essere umano l’interrogativo circa il senso dell’esistenza. Quando non sembra più esserci alcun elemento di continuità fra passato, presente e futuro, quando la progettualità per ciò che potrebbe essere perde di smalto, quando le aspettative annegano in una presentificazione che spoglia il presente di significatività, l’essere umano finisce per trovarsi di fronte all’impossibilità di progettare la propria esistenza affettiva, lavorativa, minando il senso della propria identità. La morte appare, allora, il rito che può far ritrovare il senso.
Oggi, lo Stato risponde al malessere diffuso con l’approvazione del “Bonus Psicologo”: nel decreto Milleproroghe è stato previsto uno stanziamento di venti milioni di euro, di cui dieci milioni da ripartire in contributi da 600 euro per chi ha un ISEE non superiore a 50.000,00 euro.
La stanza della terapia psicologica come luogo della possibilità di vita. Ma come possono curare le sole parole? Le parole non si dicono solo, si ascoltano anche, ed è in quel prestare l’orecchio che si snoda l’opportunità di andare laddove la parola conduce, di accogliere ciò che la parola deposita. Se poi, invece della parola, c’è il silenzio, sarà il silenzio a guidare.
Per chi ha coraggio, la stanza delle parole è occasione di guardare in faccia il proprio dolore. Per chi ha coraggio, perché ci vuole coraggio per guardare negli occhi la propria vulnerabilità, la stanza delle parole è il luogo dove svelare la verità su di sé, una verità che forse il cuore avverte da tempo ma che il rumore del quotidiano ha seppellito. Venire a patti con quella verità dolorosa, scomoda, che più spesso si tende a disabitare per non sentire troppo male, significa sventrare le maschere variopinte di recitate euforie dietro cui si nasconde.
La stanza delle parole non dispensa atti consolatori, non fa retrocedere nell’immediato tutte le parole strozzate in gola, non scioglie in modo indolore le incrostazioni di infelicità, ma, perforando il silenzio, raggiunge quel grido taciuto, offrendogli spazio. Dare un nome a ciò che si prova è già fare ordine dentro di sé. Il silenzio può farsi, allora, tumultuoso, la malinconia tradursi in suoni comprensibili ed accettabili, le lacerazioni cospargersi di unguento lenitivo, le ferite mortali cicatrizzarsi in seguito a sutura.
La capacità di salvaguardare la trama della propria identità si fonda sulla resistenza. Perché resistere è creare.
Gli psicologi faranno la loro parte.