Eutanasia, suicidio assistito: chi sono io per dire “sì”?
“Ma tu ci staresti da questa parte, bendata, legata al letto? Io non sono dello Stato… e non ne posso più”, Fabiano a Valeria. Lui è dj Fabo, lei la donna di una vita.
“Sono stanco e voglio essere libero di scegliere sul mio fine vita. Purtroppo da 11 anni sono paralizzato dalle spalle ai piedi a causa di un incidente stradale. Destino, colpa mia, non lo so, ma è andata così. Sto combattendo come un leone da allora ma, a causa dei costanti peggioramenti della mia disabilità e la stanchezza mentale di vivere una vita che di vita naturale e dignitosa non ha più nulla, sono stanco e voglio essere libero di scegliere sul mio fine vita. Nessuno può dirmi che non sto troppo male per continuare a vivere in queste condizioni. Negarmi un diritto dato da una sentenza della Corte Costituzionale sarebbe, oltre che di una gravità assoluta, condannarmi a vivere una vita di torture, umiliazioni e di sofferenze, che io non tollero più. Si devono mettere da parte ideologismi, ipocrisia, indifferenza, e ognuno si prenda le proprie responsabilità, perché si sta giocando sul dolore e le sofferenze di malati, persone fragili.” Mario (nome di fantasia), marchigiano, 43 anni, tetraplegico.
Com’è fatto l’anello di snodo di una vita che perde l’orizzonte? Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non abbiamo il medesimo orizzonte.
Allontanarsi progressivamente dalla vita e scegliere cosa sia bene per la propria vita. Fermarsi, questa la pretesa sottesa alla richiesta di una morte assistita.
Ho sempre guardato alla sofferenza come ad una grande maestra, parte ineluttabile del destino umano da osservare da vicino. Solo se l’attraversi, quella ti posa dentro il suo messaggio. Resistere di fronte agli sbarramenti, agli inciampi, alle prove, alla seduzione di lasciare questa vita: è dal trauma che nasce la forza. Ma le parole di Fabiano e Mario mi obbligano all’arresto: fino a quando è umano sopportare il disumano? Fino a quando è possibile surfare sull’assenza di speranza?
Della tentazione di morte colgo il rischio della capitolazione. La capitolazione è una possibilità in questa vita o non è ammessa? La capitolazione è fuga dalla vita, spreco, spregio, o legittima legittimazione di una vita sfiorita alla vita che chiede a gran voce la fine della resistenza? Qual è la cifra del dolore esatto perché un supplizio prenda le sembianze di un martirio disumanizzante a cui concedere la resa?
Soprattutto, ho una domanda: “Chi sono io per dire sì, ti è concessa la dipartita”.
La sacralità, c’è la questione della sacralità. Come può esserci dignità nella dichiarazione di capitolazione di fronte ad una vita sacra per sua natura? Non è una sconfitta etica concedere la resa?
E poi c’è la questione della libertà: la decantata libertà di autodeterminazione. Ma togliersi la vita non è un mero liberticidio? È davvero pensabile avallare la volontà del trapasso nonostante il valore inalienabile della vita? Non siamo fatti per morire. Se dipendesse da noi, non moriremmo. In fondo moriamo per obbligo delle carni ed ogni morte ci appare sempre sbagliata. Non è forse vero che quanto più la morte aleggia sulle nostre teste, tanto più si vivifica il nostro attaccamento all’esistenza? Dimentichi che vita umana è vita mortale, ci struggiamo nell’angoscia dell’attesa.
Dunque non esiste in questa vita un gesto che ne possa raccogliere lo strazio? Esiste: farsi dono della morte.
Guardo all’eutanasia, al suicidio assistito non tanto come ad una possibilità straziante quanto come ad un dono che, di fronte ad una vita fattasi innaturale, possa abbracciarne il supplizio, una sorta di omaggio a se stessi, che non intacca la sacralità dell’esistenza ma ne onora, perfino, il tratto percorso. Perché vita disumanizzata deve poter riconoscersi il proprio umano limite.
Lasciare il corpo per scelta caparbia obbliga la Legge ad interrogarsi: “Sì vs No”. Io che assisto mi chiedo: “Chi è l’essere umano incarnato dalla Legge che sente di poter osare imporre una vita ristretta al perimetro di un letto?”. Non è possibile giudicare. Non è nemmeno più tempo di giudicare: quell’essere umano se n’è già andato.
Nella cultura dolorista, famelica di occasioni di purificazione, pare non ci sia spazio per la cultura della morte. Eppure la morte non è che l’altra faccia della vita. E darsi la morte è profondo riconoscimento della vulnerabilità insita nell’umana umanità. Confinare un essere umano a vita prigioniera significa frapporsi tra lui e la sua personale concezione dell’esistenza.
Prendersi cura del prossimo, il dramma del “fine vita” ci riguarda tutti. Quando la vita annega nell’impossibile, ci vuole cura, cura del prossimo, una cura che meriterebbe di scendere in campo per molto meno, ma che qui certamente non può voltarsi dall’altra parte. Qui c’è l’obbligo di compassione. Perché ci vuole partecipazione umana di fronte ad una vita che ti grida in faccia la sua immensa vulnerabilità, con umiltà, con impotenza. È una questione di pietas. Solo una concezione impietosa della vita può negare il permesso alla capitolazione di fronte alle barriere insuperabili dell’esistenza.
Liberi fino alla fine.