“A chi scrive, non restano che le parole per sovvertire la realtà. Il foglio di carta è il luogo del rifugio, è lo spazio limitato in cui recintare la condizione puramente spirituale dell’anima persa nel sogno, il viaggio fantastico per sfuggire a una quotidianità che non soddisfa”.
Dimenticare la clausura dei mesi passati e iniziare a fare cose che non mi piacciono e che non mi sono mai piaciute. L’ho detto a me stesso e me lo sono ripetuto dopo, dopo quando ormai c’ero stato. Io non ci volevo andare al vernissage di pittori “post non so che cosa”, mi guardavo intorno sperando di non dovermi confrontare con nessuno … all’improvviso uno peggio dei suoi quadri mi si para davanti e mi chiede: “cosa pensa delle mio nuovo periodo artistico?” … panico …. eeeh caro lei, cosa dire: “penso a Picasso anche lui attraversò vari periodi, tra cui quelli in cui gli si erano rotti gli occhiali” (questa uscita non è proprio farina del mio sacco, credo di averla letta da qualche parte, me ne sono ricordato e l’ho usata). Non ho dato modo al mio interlocutore di capire e poi le mascherine che ancora indossiamo ben celavano il mio viso.
Mi sono allontanato sperando di guadagnare l’uscita, in effetti capisco poco di arte moderna, devo aggiungere che è andata peggio al curatore della mostra il quale mi faceva presente che alcuni artisti non erano momentaneamente presenti; ho pensato “meno male” e poi candidamente gli ho detto: ” capisco, non essendo riusciti a trovare il pittore, hanno appeso i quadri”. L’isolamento dei mesi vissuti tra divano, balcone e fughe al supermercato non hanno scalfito minimamente il mio strano carattere che mi porta a cercare la socialità e a non voler pagare il “biglietto” delle false buone creanze che sfiorano la bugia diplomatica. Mi torna in mente qualcosa che ho scritto e che riscriverei: “A chi scrive, non restano che le parole per sovvertire la realtà. Il foglio di carta è il luogo del rifugio, è lo spazio limitato in cui recintare la condizione puramente spirituale dell’anima persa nel sogno, il viaggio fantastico per sfuggire a una quotidianità che non soddisfa”. Involontariamente devo aver pronunciato queste parole oltre i confini dei miei rumorosi pensieri e qualcuno deve aver sentito. Va già via? Stavo per generare una risposta senza senso, ma avevo già ben seminato, il mio interlocutore ha pronunciato parole che hanno suscitato curiosità e vanità: “Ho letto un paio di suoi libri e mi sono piaciuti, lei caro Selvaggi riflettere su argomenti che accomunano tutti gli uomini, partendo da esperienze personali per arrivare poi a considerazioni di portata universale, avvicinandosi al modello letterario degli aforismi”. Pur lusingato per l’attenzione gli ho chiesto come avesse fatto malgrado la mascherina a riconoscermi, lui simpaticamente mi ha risposto che sin da piccolo gli era sembrato una finzione il fatto che guardando i film di Zorro gli altri non lo riconoscessero da subito e che comunque aveva già avuto modo di conversare con me in una non lontanissima occasione e prima della “clausura” dettata dalla pandemia; devo, devo riprendere confidenza con il valzer delle ritualità sociali. Il conversare per tessere rapporti e farmi apprezzare, magari spintonando con le parole, è tecnica che oramai mi infastidisce anche quando ne faccio uso. Se potessi eviterei di curare le esteriorità, tornerei in un graduale processo regressivo a cercare una grotta da abitare, l’unica cosa che mi porterei dietro è un cartello da appendere all’ingresso con su scritto “SILENZIO”. Parole, parole, acrobazie verbali per la vanità di un applauso.
Di buoni parolai si può farne a meno ed è una delle poche cose di cui mi sono fatto una convinta convinzione. Ti applaudono perché sei bravo, ti applaudono perché tu finisca prima di parlare, ti applaudono perché non capiscono.
Sto provando a smettere anche di scrivere.
Cercherò di ordinare, pigrizia permettendo, parte di nero su bianco già prodotto, privilegiando tutto quanto scritto con ironica convinzione che è solo un esercizio di bella calligrafia.
Parlando con una amica che mi chiedeva se nei miei scritti mi sarei mai ricordato di citarla non ho potuto fare a meno di rielaborare un concetto espresso dal coreografo Mazt Ek sulla sua ballerina preferita: “ho scritto su di te come sull’acqua del lago”. A richiesta di spiegazione ho provato a elaborare qualcosa di senso compiuto: “ credo che ognuno di noi scriva sull’acqua, la penna usata come i sassi lanciati con maestria a filo d’acqua generano cerchi concentrici, si perderanno è vero ma ciò basta per chi vede e sa come nel caso della scrittura scoprirsi nei cerchi tra le righe”.
Le idee non contano più e interessano solo ai collezionisti di buoni propositi. Arriva un tempo in cui ci si convince, giorno dopo giorno, di aver costruito una intera esistenza su insegnamenti antichi, e su una idealità inattuale.
Sentirsi sempre più spesso straniero ed estraneo alla contemporaneità.
Cominciare a coltivare l’avarizia delle parole sino a raggiungere la più assoluta perfezione che è il silenzio, affidare a un muto e a volte sordo interlocutore i pensieri sicuro che se non verranno accolti ci sarà almeno una spiegabile ragione.