Il Clima ha influenza sul sorgere delle crisi internazionali e sul deflagrare dei conflitti?
Riprendiamo per completarlo l’argomento dell’articolo precedente “L’importanza del clima nell’insorgere dei conflitti” pubblicato il 12 maggio sul n. 74 di Farecultura.
Il tema è scottante e i grandi della terra finalmente se ne sono accorti. Il recente vertice sul clima indetto da Biden in occasione della “Giornata della Terra” del 22 aprile e la “legge europea sul clima” del 21 aprile hanno rappresentato una vera e propria svolta nella politica ambientalista delle grandi nazioni occidentali. Un passo importante anche perché da numerose analisi di osservatori delle questioni internazionali sono emersi molti dati sconcertanti sul legame tra lo scoppio di un conflitto e il cambiamento climatico.
Solomon Hsiang e Marshall Burke, esperti della Stanford University (USA) sulle problematiche legate allo sviluppo sostenibile, ad esempio, hanno redatto una corposa relazione dal titolo “Clima, conflitti e stabilità sociale: cosa dicono le prove”. Nell’elaborato definiscono il conflitto e l’instabilità sociale come una cosa sola, indicata come “luogo dove i consueti modelli di risoluzione delle controversie falliscono o dove gli ordini sociali cambiano”.
Per Hsiang e Burke “la maggior parte degli studi suggerisce che i conflitti aumentano e la stabilità sociale diminuisce quando le temperature sono elevate o le precipitazioni sono estreme”.
In un altro documento, “Quantificare l’influenza del clima sul conflitto umano”, Hsiang e altri hanno esaminato l’impatto del clima in più regioni. Adottando una formula matematica i due esperti hanno processato centinaia di documenti che mettevano in relazione le condizioni meteorologiche con tre diversi tipi di conflitto umano: violenza personale come l’omicidio, violenza tra gruppi come le guerre civili e cambiamenti improvvisi come le rivoluzioni. Hanno appurato che se la minaccia fosse rappresentata ad esempio, dalle centrali elettriche a carbone altamente inquinanti costruite ancora oggi in gran numero in Cina o dalla costruzione di dighe che tolgono acqua alle popolazioni a valle, come avvenuto in Etiopia sul Nilo Azzurro, la posta in gioco geopolitica sarebbe notevolmente aumentata e l’idea dell’intervento militare potrebbe essere un’opzione all’esame di qualsiasi parte lesa.
Il cambiamento climatico per un numero crescente di Stati rientra oggi ampiamente nella definizione di “questione di sicurezza nazionale” espressa dall’esperto britannico di Security, Defence and Intelligence David Omand. E questo legame tra rischio, sicurezza e cambiamento climatico definisce il modo in cui il cambiamento climatico viene ora considerato.
Pur ricordando che la Comunità Internazionale (CI) fondamentalmente approva solo le guerre preventive per fermare le atrocità, va detto che anche i disastri naturali causati dal cambiamento climatico uccidono e sfollano milioni di profughi pur non essendo tradizionalmente visti come motivazioni valide per un intervento militare. Ci chiediamo allora: se un governo decidesse di trascurare le misure di prevenzione del cambiamento climatico come il North Korea o di bloccare gli aiuti umanitari come ha fatto il Myanmar nel 2008 a seguito di un ciclone che ha ucciso e sfollato molte migliaia di persone, sarebbe lecito un intervento preventivo della CI?
Possiamo allora concludere le nostre riflessioni affermando che “il cambiamento climatico è una grave minaccia per l’umanità, superata forse solo da una guerra nucleare su larga scala”.
A questo punto non ci sono più dubbi. Se ne debbono fare carico con convinzione la CI e l’ONU. E vista la loro responsabilità qui investita, proprio i 5 membri del Consiglio di Sicurezza ONU (P5) dovranno dare l’esempio. Gli strumenti, anche se poco utilizzati nel tempo, ci sono.
Ed allora mettiamoci all’opera. Come ha osservato Linda Malone professore in diritti umani e sicurezza alla Marshall-Wythe School di Williamsburg (USA): “i disastri ambientali con effetti transfrontalieri, la perdita di una risorsa globale vitale o le azioni in violazione del diritto ambientale internazionale non possono più essere considerati questioni di giurisdizione interna”.
Della serie….nessuno è più solo, nessuno può pensare solo a se stesso magari a discapito degli interessi collettivi. La globalizzazione del clima e la connessa geopolitica sono cosa di tutti gli Stati e di tutti i popoli, che ne condividono la responsabilità, nessuno escluso.
Di seguito l’articolo pubblicato su Farecultura n. 74 dello scorso 12 maggio, nel quale il Gen. Roberto Bernardini inizia un’attenta disanima geopolitica sulla connessione tra crisi climatiche e crisi politico-militari.