Le riflessioni di Agostino Picicco su un Natale anomalo, che ha richiamato agli anziani quello di circa settant’anni fa caratterizzato da limitazioni, precauzioni, assenze affettive.
Se non fosse stato per i supermercati straripanti di panettoni già dai primi di ottobre (saltato Halloween, niente zucche e niente feste che facevano da cuscinetto al periodo natalizio con i suoi addobbi e i suoi dolci), le festività del Natale 2020 sono risultate simili a quelle del Natale degli anni della guerra raccontati dai nonni e descritti dalla letteratura. Abbiamo vissuto, infatti, un Natale anomalo che ha richiamato agli anziani quello di circa settant’anni fa caratterizzato da limitazioni, precauzioni, assenze affettive.
Tante famiglie, colpite dal contraccolpo economico del virus, hanno vissuto questo momento in povertà e senza regali, cenoni, acquisti.
Coloro che hanno avuto vittime del virus tra i congiunti hanno perso la voglia di festeggiare e hanno vissuto questi giorni con sentimenti di tristezza e di vuoto, senza neppure salutare i familiari scomparsi (proprio come accadeva per i soldati caduti al fronte).
E poi coprifuoco, code dietro gli ingressi dei negozi, divieti di assembramento e di spostarsi tra regioni o anche tra case (salvo casi di necessità documentati dall’autocertificazione).
Non si è potuto svolgere il rito della “nascita” per portare processionalmente il Bambino nella culla, da parte del più piccolo della famiglia, e magari si è evitato di partecipare alla messa di mezzanotte (opportunamente anticipata ad orari pre-coprifuoco). Di conseguenza niente regali scartati in compagnia e degustazione collettiva dei mitici dolcetti natalizi che vedevano le mamme e le nonne alacremente occupate nelle settimane precedenti
Annullati eventi pubblici, spettacoli teatrali, concerti, presepi viventi in angoli suggestivi per paesaggio e architetture antiche, senza neppure le luminarie nelle vie principali a cura dei negozianti (ora falcidiati dalla crisi).
Vietati pure i giri di auguri parentali o amicali che si concludevano con l’assaggio di liquori fatti in casa.
I tradizionali scambi degli auguri delle varie realtà associative, con pantagrueliche e sfiziose degustazioni, si sono ridotti a qualche collegamento su Zoom, stucchevole nei contenuti, ripetitivo nel “giro di tavolo”, talvolta imbarazzante per chi non è riuscito a collegarsi e per chi si è collegato ma – poco capace con la tecnologia – ha commentato a sproposito con il microfono acceso.
La tecnologia ha comunque supportato il frenetico scambio di cartoline virtuali, foto e videochiamate.
Ha pesato molto la distanza fisica, il non poter abbracciare o fare un dono direttamente alle persone a cui si vuol bene.
Se non povero di cose, è stato un Natale povero di relazioni reali, non sempre compensate da quelle virtuali.
La solitudine si è fatta sentire di più. E la solitudine a Natale è sinonimo di tristezza. Neppure quella che viene chiamata “poesia” o “magia” del Natale è riuscita ad arginare il senso di scoramento.
Chissà se si sarà approfittato di questo per poter andare alle sorgenti della festa cristiana e riflettere sulla propria esistenza. La solitudine, infatti, riconcilia con la spiritualità.
Magari qualche genitore ne ha approfittato per leggere una fiaba ai più piccoli, storie dimenticate, abitudini venute meno. Chissà che non si sia colta l’occasione per scrivere ancora qualche lettera a Gesù Bambino, messa sotto il piatto del papà e poi letta in pubblico, magari salendo sulla sedia. E postata sui social per condividerla con altri componenti della famiglia distanziata (la post modernità è anche questo).