Rubrica a cura del servizio URGENZA PSICOLOGICA.
E’ entrato di nuovo. Esplode il terrore di un avvenire fragile. Il primo lockdown ci ha colto di sorpresa; l’effetto rebound ci getta nello sconforto?
La libertà privata suona sempre come un sopruso, ma forse scordiamo la responsabilità che abbiamo in quanto cicale: complice il meccanismo di difesa della rimozione (processo inconscio attraverso cui si escludono determinate istanze e rappresentazioni dal preconscio, identificandole come fonte di potenziale dolore o pericolo), ci siamo comportati come se il virus non fosse più tra noi, trascurando le necessarie accortezze del caso, confermando quell’intuizione di freudiana memoria che vede nel conflitto tra una pulsione all’autorealizzazione di sé e una tensione autodistruttiva (simbolizzata da Thanatos) trionfare la seconda.
Oggi, stanchi e demotivati, contrarre la percezione di distanza fisica si fa urgenza psichica. Lo sanno bene i single, 45% a Milano, 52% a Roma, quelli per cui il lockdown è più leggero (nessuno intorno a rompere) o più pesante (la solitudine incalzante di una casa vuota), dipende dai punti di vista e dai vissuti personali; quelli che non si riconoscono in una visione della vita pensata intorno ad un matrimonio, alla genitorialità; quelli che potrebbero non avere congiunti da raggiungere (di legami d’amore ne portano tanti nel cuore, magari, ma non sono di sangue o non ci vivono l’ intimità fisica); quelli per cui andare a teatro, al cinema, in palestra, fuori a cena, costituisce la vita, una scelta egoistica secondo alcuni, ma loro sono fatti così e vanno bene così; quelli che ogni tanto si sentono dire con aria colpevolizzante: “Sei single perché hai perso il treno!”, dove la colpa sta sostanzialmente nel non aver saputo trovarsi o tenersi uno straccio di partner; quelli che hanno “perso troppo tempo” dietro alla carriera, macchiandosi dell’ulteriore indelebile colpa di aver forse scelto di individuarsi attraverso un ruolo che ha consentito loro di esprimere il talento personale, scelta per cui quasi meritano la giusta punizione della solitudine; quelli un po’ dimenticati dallo Stato durante il precedente lockdown, che oggi vivono il rischio della perdita di volti amici come uno straniante effetto collaterale della pandemia e più che mai si stanno chiedendo come salvaguardare familiarità protettive per non cadere nell’isolamento interiore. Perché loro, i single, magari non legano il loro benessere alla vita familiare (non sempre per scelta) ma vivono la socialità come un bene prezioso e l’isolamento come la morte delle vicinanze emotive.
Siamo animali sociali, anzi siamo “una catena di storie d’amore, una dentro l’altra”, per usare un’espressione così poetica di Cristina Comencini, animali bisognosi di codici emotivi condivisi. La bellezza salvifica della condivisione ci è diventata lampante, se non lo era già, proprio durante il precedente lockdown, quando dei corpi amati abbiamo vissuto l’assenza, tanto che oggi l’effetto della loro progressiva rimozione spaventa e forse lo fa anche più del rischio di ammalarsi.
Al centro la vulnerabilità della condizione umana, quella fragilità di fondo, o solo umana umanità piuttosto, che costringe a fare i conti con il bisogno di appartenenza, con quello di riconoscimento, con il bisogno di contatto, ma anche di tatto, dove la rinuncia a sfiorarsi è come se minasse la consistenza del legame stesso.
Ma oggi il compito è stringere i denti. E so-stare. So-stare, perché come in ogni momento di crisi scaraventarsi verso l’uscita rende la crisi più vivida e i gesti scomposti. So-stare, espressione matura di un Io maturo che sa essere all’altezza di quello che gli accade: una convivenza forzata con il virus, sopportandone il peso, distanti fuori ma un pensiero benevolo dentro (se non mangeremo il panettone tutti insieme, ci sarà la colomba). So-stare, con uno sguardo attento verso chi rischia di lasciarsi travolgere dalla sofferenza — economica, sociale, psichica — dell’arresto.
Quali i possibili effetti di questa seconda sosta “tatto-free”? Se da una parte non possiamo affermare di essere completamente sprovvisti della scorza per far fronte alla situazione (“Soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia”, dice uno dei protagonisti di Camus; la tanta tecnologia ha già un po’ impoverito la supremazia del tatto, chioso io), dall’altra diviene importante dialogare con la propria attitudine mentale e affettiva alla convivenza nella distanza, dove un corpo immaginato è comunque sempre presente nella mente.
Una domanda, dunque: di cosa è fatta una relazione? Di presenza, di contatto, di baci (a volte travolgenti), di parole, di intelligenza (meglio se emotiva)…? Ognuno risponda per sé.
Personalmente penso che le relazioni con corpi amati siano soprattutto frutto di un paziente lavoro artigianale, cesello, chiodi e martello, relazioni d’amore non perfette magari, ma opere d’arte forgiate con volontà. Le mie relazioni sono fatte anche di distanza, che nella separazione vede crescere il desiderio. “La mancanza in realtà allena il desiderio, lo tiene vivo, non lo sopprime”, sottolinea M.Recalcati, psicanalista.
“Non tutto il male viene per nuocere”, finisco per pensare, lasciando che il desiderio infiammi i miei legami. “Non vedo l’ora di riabbracciarti”, il messaggio finale che scivola lungo un filo invisibile al termine di una telefonata, con lo slancio innocente di una tensione verso l’Altro animata dalla mancanza.
La vita porta con sé punte di atrocità, il che non significa caderci irrimediabilmente dentro. L’atrocità mina ma non può togliere del tutto lo splendore al mondo. E nemmeno alle relazioni amiche tra corpi amati, che dovranno aspettare di riabbracciarsi, ma l’attesa tra corpi lontani sprigiona vicinanza tra cuori affini.
Luisa Ghianda, psicologa e counselor, Urgenza Psicologica sede di Monza