“Tempu de guerra, la fami è comu terra”. Il saggio di Vito Teti, docente di Antropologia Culturale all’Università della sua Calabria, è infarcito di fatti e detti memorabili popolari. Nella lingua dei padri.
Nell’analizzare la situazione attuale dell’umanità smarrita, Vito Teti fa un salto indietro nel tempo, e racconta che la nostra missione ora è “prevedere l’imprevedibile” e “pensare l’impensabile” come ci ricordano con efficacia Amitav Ghosth, Paolo Giordano, Mark O’Connell e i tanti altri studiosi che hanno riflettuto sulle condizioni del mondo squassato non dai terremoti, dalla distruzione dei boschi e dall’emigrazione, individuate agli inizi del Novecento da Saverio Francesco Nitti come le tre “cause modificatrici” della storia recente del Mezzogiorno, non dalla guerra, la fame, la carestia, la spagnola, parole ascoltate dall’autore fin da bambino dalla nonna e dalla mamma e poi da giovinetto nel ’68, quando frequentava i compagni più grandi, anche da questi. Nessuno dei nostri governanti però avrebbe immaginato che la fine della nostra civiltà di homo sapiens sarebbe avvenuta per un piccolo, inimmaginabile, invisibile virus. Che si aggira per il mondo e provoca terrore tra gli ultimi e i primi, tra i poveri e i ricchi, tra i giovani e gli anziani (di più fra questi). Come chiamare, come definire questa situazione impensabile e imprevedibile? Vito Teti fa ricorso all’espressione del greco antico katastrophé nel significato di rivolgimento, rovesciamento ma questo termine sembra riduttivo, inadeguato, parziale. E allora esita dal pronunciare una parola più forte che sa di distruzione totale. E se fosse Apocalisse il termine che non vogliamo adoperare?, si chiede. Siamo davvero a questo punto? L’attività umana è giunta effettivamente ad un punto di non ritorno? Molti problemi ci assillano, dall’inquinamento ambientale, all’effetto serra, allo scioglimento dei ghiacciai e all’innalzamento dei mari, allo spreco alimentare e paradossalmente alla fame nel mondo, allo sconsiderato consumo di carne, alla mancanza di futuro, al problema posto dalla storia: “non è che essa avrà fine” ma al contrario che essa “non avrà fine” come scrive Braudrillard, cioè non avrà finalità, scopo, télos. Ecco allora che dobbiamo armarci di passato per poter affrontare il presente e organizzarci per il futuro. Non un passato nostalgico, l’impossibile ritorno dei soldati svizzeri dalla battaglia o degli eroi omerici, il dolore del ritorno, ma quello semplice, fatto di osservazione dei fenomeni naturali e di rispetto della madre terra, riconoscendo i cicli naturali delle stagioni, rievocando modalità e culture che hanno nel tempo fatto i conti con le asperità del tempo e con le grandi reazioni pure distruttive, del terremoto rugurusu, come dicevano gli avi calabresi di Vito Teti. Recuperando una cultura della semplicità, della sobrietà, del rapporto rispettoso invece di quello mai così immenso di sfruttamento delle risorse naturali, della tradizione così intesa da Pasolini, come pietas, del rispetto per gli animali umani e non umani e per i vegetali, nello smettere di attribuire responsabilità di contagio ai pipistrelli/vampiri secondo una visione dell’immaginario che attribuisce agli animali/spiriti della notte la responsabilità del contagio, che invece è interamente colpa nostra, delle nostre pratiche predatorie nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Quindi la nostalgia ci deve consentire di riflettere sul passato e sul presente. L’epidemia causata dal virus può essere una opportunità, se sapremo coglierla per affrontare insieme – “Nessuno si salverà da solo!”, ammonisce il Papa – le malattie, la fame nel mondo, la siccità, le carestie, rispettando i limiti dello sviluppo, oltre il quale non c’è salvezza come insegnano il folle volo di Icaro e la ýbris di Ulisse quando scelse di superare le colonne d’Ercole con la sua compagnia picciola nella sfida fatale.
Donzelli Editore, Roma, maggio 2020, pp. 105, € 15,00.