Solo una piccola parte degli anni della nostra vita è vissuta veramente
ed è il tempo in cui si riesce a fare ciò per cui si è nati.
La mia età è la somma di tre volte venti + la metà di dieci, non ho fatto nulla per arrivarci ho solo dovuto attendere che il tempo passasse. Organizzare il niente in vista di un possibile eterno niente è frutto di una mutuata esperienza di chi precedendomi mi ha consegnato un testimone affinchè la corsa verso il niente potesse continuare. Ho accolto con amore fati un destino marginale, comincio con distacco a considerarmi un vivente di passaggio, a chi è continuità del mio sangue non lascerò, un domani mi auguro lontano, che parole e pensieri che sono la sintesi di incontri che mi hanno donato griffate miserie umane e nobiltà di animo inaspettate. Qualcuno ha scritto che a sessanta anni passati si è diversamente fanciulli, vero, mia moglie non vuole che faccia azzardi perché teme per la mia salute (esattamente come faceva mia madre imponendomi limitazioni che suscitavano in me voglia di strafare) i miei figli mi controllano per evitare improbabili sbandate senili. Non amo il rituale del “compimento degli anni” credo sia l’illusione più adatta a chi ha bisogno di credere di aver fatto qualcosa almeno una volta all’anno. So di scrivere a me stesso, forse rileggendomi capirò qualcosa di più, in verità non mi sono mai capito. Tra gli amori non ricambiati un posto di riguardo spetta alla verità, non mi faccio più illusioni, la verità nell’esercizio dell’arte del vivere è come quella della guerra dopo gli squilli di tromba e le parate fango e sudore. Le mie prevedibili frasi del tipo: ”c’è poco da gioire per il tempo che si esaurisce” e la non voglia di festeggiare non fanno altro che confermare la mia vocazione a una non ben curata forma di “asocialità atipica”. Chi mi vuole bene, quando mi lagno per non essere stato capace di far fortuna materiale (troppo distratto dalle astrazioni) mi dice che la mia è una ricchezza interiore, ho compreso tardi però di avere una “ricchezza” non spendibile in nessun negozio. L’ossessione vittimistica e la malinconia del tramonto prevalgono e se dovessi in terza persona parlare di me direi che: possiede una sensibilità che «gli dà un’acuta sofferenza piuttosto che piacere. È come un uomo che fosse non solo svestito ma spellato, e in tal guisa esposto alle ingiurie dei rudi e turbolenti elementi che disturbano perpetuamente questo basso mondo» (traggo la citazione da un bel libro fuori commercio: Per conoscere Rousseau, antologia a cura di Paolo Casini, Oscar Mondadori 1976).
Se dovessi indicare una colonna sonora che rappresenti la mia vita, non ci penserei a lungo, per la verità ne indicherei due “Vivere” di C. Bixio e “Voglio vivere così” di Giovanni D’Anzi. Non ne conosco i testi per intero, mi limito a canticchiarne in maniera ripetitiva e non senza varianti quello che ritengo riesca a darmi un momento di illusoria euforia, a volte senza accorgermene a voce sostenuta anche per strada, suscitando sguardi attoniti di impettiti passanti o lo stupore di chi mi sta accanto.
Quando sono deluso da qualcosa o devo lasciare un luogo o una persona cara, canticchio sottovoce “ Vivere, senza malinconia, senza rimpianti. Ridere delle follie del mondo. Vivere finchè c’è gioventù perche la vita e bella e la voglio vivere sempre più”.
Quando sono in bici o più in generale all’aria aperta attacco e in maniera ossessiva sarei capace di andare per più tempo avanti con: “Voglio vivere cosi col sole in fronte e felice canto beatamente … Voglio vivere e goder l’aria del monte perché questo incanto non costa niente” e poi quasi a voler fare invidia a qualcuno, concludo con: “Voglio vivere così col sole in fronte e felice canto, canto per me”.
Chi mi ascolta quasi sempre mi dice simpaticamente “nuovo questo brano” e poi “ ma quanti anni hai?” E’ vero sono canzoni d’epoca, le ascoltavo alla radio la domenica quando ci si sedeva a tavola con tutta la famiglia al completo, la radio diffondeva allegria e non volgarità e cattive notizie. Ogni domenica mattina la voce di Rascel annunciava il giorno di festa con quella semplice allegria contagiosa della canzone “Domenica è sempre domenica, si sveglia la città con le campane ….”. A volte mi chiedo cosa è rimasto della spensieratezza di quei tempi.
Per ognuno di noi c’è un’età dell’oro, quando la viviamo siamo troppo presi e non ce ne rendiamo conto, non trovandola continuando a cercarla ci accorgiamo tardivamente di averla inconsciamente vissuta.
Oggi vivo l’età della discrezione, devo per forza “vivere senza malinconia”, i rimpianti non servono a niente, lo sguardo indietro aiuta a vivere meglio il presente perché il passato, bello o brutto è immutabile. Mi chiedo, nelle lunghe e consuetudinarie passeggiate che concludono la fine di una giornata spesa e non sprecata, perché non mi sforzo maggiormente di essere come la maggior parte della gente normale, quella che è tutto ok e che in fondo “che problemi ci sono”, perché continuo a mettere al centro della riflessione la contraddizione tra l’essere e l’apparire (l’être e il paraître), tra il naturale amore di sé e l’artificioso amor proprio. In fondo a cosa servono tutte queste parole, dietro una faccia spesso tirata e triste si nasconde un animo solare e all’interno rido un po’ come fanno i matti che sono si figli di un dio minore consapevolmente tanto folli da perseguire una normalità tale da apparire anormale. Solo una piccola parte degli anni della nostra vita è vissuta veramente ed è il tempo in cui si riesce a fare ciò per cui si è nati. Da oggi e per i prossimi giorni riprende il conto alla rovescia sino alla prossima candelina, in fondo la vita è come un giro di giostra se ti piace non vuoi scendere e speri che continui a girare.
Quanti compleanni conto di festeggiare? bella domanda, credo tutti fino al giorno in cui il grande Regista si degnerà di svelarmi l’avvenire; se non ci metterà troppo, aspetterò, aspetterò tutta la vita.