Dopo tre Bandi andati deserti, si cerca una soluzione alternativa per la sua gestione che possa salvare il bene monumentale ormai prossimo all’abbandono. Con una cooperativa di comunità potrebbe diventare un hub culturale.
La situazione di Rocca Brivio desta preoccupazione. L’arcigno palazzone tardo rinascimentale, realizzato dai Brivio Sforza alla confluenza del fiume Lambro con la Vettabbia, alle porte di Milano per chi proviene da sud percorrendo la via Emila, versa in uno stato prossimo all’abbandono. I costi di gestione e di manutenzione del bene sono consistenti e le proprietà pubbliche (Cap Holding al 51% e i tre comuni di San Donato, San Giuliano e Melegnano) con una piccola parte privata in mano all’Associazione Rocca Brivio non intendono garantirli oltre, dopo aver provveduto in questi anni a mettere in sicurezza il bene. Sono stati già lanciati 3 bandi per l’affidamento della gestione da assegnare ad una società che si assuma l’onere dei costi oltre all’utilizzo della struttura, ma sono andati deserti. Le associazioni del territorio sono preoccupate per la piega che stanno prendendo gli eventi e hanno scongiurato l’alienazione del bene, avendo così ottenuto l’ennesima pubblicazione del bando con l’impegno di consultare e coinvolgere fondazioni e società del terzo settore interessate. Bene sapendo che non è facile reperire risorse in un momento di generale difficoltà economica. In un articolo su #buonenotizie del Corriere della Sera del 30 giugno scorso si analizza lo sviluppo in Italia di una nuova forma di imprenditoria, cosiddetta di comunità, dovuto alla necessità di rispondere all’emergenza Covid-19 con il bisogno di aiuto reciproco fra i membri di una comunità. La novità sta nel cambiato atteggiamento dei cittadini che a fronte dei fallimenti dello Stato e del mercato hanno assunto in proprio il compito di realizzare, attraverso il turismo, l’agricoltura, la ristorazione, il welfare, la cultura, nuovi progetti di comunità. La differenza rispetto a prima è di assumere una dimensione mutualistica, una mutualità comunitaria. Queste esigenze partono da difficoltà e bisogni, per es. la mancanza di servizi sociali e commerciali, oppure la paura di rimanere soli, il desiderio di rigenerare uno spazio, oppure l’intraprendenza giovanile. Queste scelte “produttive” di servizi non sono al “margine” ma diventano il “nodo” di una diversa idea di territorio, di una diversa idea di sviluppo territoriale e urbano. Le cooperative di comunità investono così in produzioni e servizi di nuova generazione, sostenibili e innovativi, digitali e ad alto valore aggiunto, trasformando beni privati e beni pubblici in beni comuni. Questo è il cambio di passo significativo! In Italia sono ormai oltre cento le esperienze di imprese di comunità, perché rispondono a esigenze di un determinato territorio. Promosse, fra l’altro, dai grandi consorzi di cooperative, come Legacoop e Confcooperative. Il fenomeno rilevante e innovativo è stato studiato dal centro di ricerche Euricse a cura di Jacopo Sforzi nel libretto “Imprese di comunità e beni comuni”. C’è una differenza fondamentale tra le imprese di comunità e le cooperative classiche e sta nel protagonismo dei membri delle comunità stesse che utilizzano le risorse del territorio. Attualmente le imprese o cooperative di comunità in Italia sono 109 (27% al Sud, 36% al Centro e 37% al Sud) e si occupano di turismo (41%), agricoltura (21%), servizi alla persona (14%), cultura (10%), animazione del territorio (8%), produzione di energia (5%) e cura del verde (1%), con l’obiettivo di lavorare insieme per lo sviluppo locale. “Nascono per offrire servizi mancanti, rispondere a bisogni specifici (disoccupazione, esclusione sociale, ecc.), ricostruire/rafforzare il tessuto sociale, contrastare lo spopolamento, valorizzare le risorse locali, offrire nuove opportunità economiche alla popolazione locale, rilanciare attività economiche già presenti, riqualificare un’area o un territorio inutilizzati, per reagire ad un evento che ha indebolito la comunità, ecc.”, come si può leggere nel citato Rapporto Euricse. Un modello che potrebbe segnare una diversità innovativa rispetto al passato, se le associazioni decidessero di consorziarsi e di gestire il bene valorizzandolo come luogo della tradizione e della conservazione, nonché dell’innovazione nei campi dell’arte, della cultura e della florovivaistica.