Che giorno è oggi? Sabato, domenica, lunedì…che cambia? Evadere dal proprio tempo, ricordarsi delle parole degli antichi, parole derise, insegnamenti ignorati, lezioni di vita di chi ci ha preceduto e ha saputo trovare nell’antica saggezza la voce per far tacere le paure. La sensazione in alcune ore del giorno è quella di trovarsi sul piazzale di una stazione ferroviaria dove non partono e non arrivano treni. Un tempo sospeso, una dimensione irreale, suscitativa di desideri di evasione. Quando la luce del giorno si fa avara ti accorgi in un lampo di riflessione banale e ovvia che un’altra giornata volge al termine, ti guardi intorno e ti chiedi che giorno è oggi? Tutto è scivolato in una progressione non uguale non diversa dal giorno che l’ha preceduto. Chi ci restituirà i giorni, le ore i minuti persi in una sorta di sala d’aspetto dove ognuno sfogliando una sgualcita rivista è sospeso tra dubbi e domande e guardandosi tutt’intorno si chiede: “Che ci faccio qui?”. Alla fine di questo tempo che non so definire ci sarà dato un “Buono” da spendere o utilizzare per recuperare il tempo perduto? Troveremo una città diversa da come l’avevamo conosciuta? Torneremo a fare quel che non ci piaceva e ora ci manca?
“Eravamo felici e non lo sapevamo”, credevo di aver avuto una “Pensata originale” , mi accorgo, e con piacere, che è una riflessione che appartiene a più persone.
Trovarsi faccia a faccia con se stessi potrebbe non piacerci, le giornate piene d’impegni, il correre e rincorrere mete, perseguire obiettivi e specializzarsi nella pratica dello sgambetto erano le priorità, il resto era tempo sottratto al “Fare” , quello dedicato al pensiero meditativo era “Tempo sprecato” se non rendeva moneta. Ognuno avrà di questi “Tempi malati” una narrazione, oggi, ieri, sentirsi come su un ottovolante, emozioni e turbamenti sono ballerini. La forzata reclusione evoca sensazioni che nella vita abbiamo già provato, una antica paura del buio memoria di quando eravamo bambini e le tante ore di stanca riflessione possono svelare qualcosa in più di noi stessi che non sapevamo o meglio non volevamo sapere. L’attesa diventa qualcosa di sacro, coltiviamo ipotesi, ci facciamo prendere da pensieri di fuga, sentiamo in maniera attrattiva il fascino di quello che sarà. Provare a trasformare l’attesa in una sorta di piacevole sabato del villaggio, vivere l’idea di una domenica soleggiata, salire su una macchina e andare in quel ristorantino in riva al mare dove non ci vai più da quando eri ragazzo e dove ti illudi di trovare insieme alle due proprietarie che cucinavano deliziosamente, già allora anziane signorine, uno spezzone dei tuoi anni senza pensieri. Temo il proliferare di scopritori di idee copia e incolla, basterebbe senza l’ansia di entrare nella cerchia dei “Sommi poeti” o “Fini letterati” esplorare per se stessi ipotesi e percorsi tentando di rispondersi su il senso del tempo, della memoria o anche semplicemente sul senso di porsi domande. Ti accorgi che le risposte sono presenti nella domanda, solo che speri in rassicuranti bugie dette da altri perché la bugia è nota a chi la formula ed è difficile convincersi che la propria sia verità. Cos’è che temiamo di più? Non voglio rispondere! Soffro di torcicollo esistenziale, guardando indietro negli anni, era una fede di tipo spirituale che dava forza e faceva credere che quella terrena fosse solo una stazione di passaggio, un cambio di treno per salire su un altro a più lunga percorrenza. Ci siamo assoggettati alla dittatura dell’avere, il possedere è stato l’imperativo categorico per molti di noi e con sconsolata sicurezza credo che dopo continueremo come se nulla sia accaduto perché il “Nulla sarà più come prima” varrà solo per chi avrà la forza di dare un senso all’esistere e determinazione nell’ignorare gli sguardi di compassionevole commiserazione di chi non vede l’ora di riprendere il gioco con le vecchie regole dettate più dallo stomaco che dalla testa. L’uomo del mio tempo si è illuso di essere simile a Dio, oggi scopre che un raffreddore può avvicinarlo a una eternità che teme non esistere e quindi coltiva la paura diffondendola.
Ibernare le paure, attendere, vivere in una sorta di esistenza parallela dove senza spostarsi dalla propria casa prigione si coltivino sogni, viaggi, passioni magari migrando dal soggiorno allo studio o viceversa, utilizzare il “Tempo creativo” senza orologio per riappropriarci di valori sociali, aristocratici e di fede da contrapporre a un nichilismo assolutistico, avere una narrazione del futuro che non cancelli il già vissuto, non inventare ma scoprire le radici della propria vera natura,
Aprire la porta di casa, scendere giù velocemente le scale, salutare chi ha il passo veloce e non solleva lo sguardo, credere di vivere in una sorta di finzione da reality show, aspirare ispirandosi al “Grande fratello” di sentire una voce che ti dice : “Sei stato nominato, devi abbandonare la casa”, sai che devi pazientare, il mondo è li fuori ma chi lo abita è auto recluso, fuori ti sentiresti solo. E’ questione di tempo, mi alzo dalla comoda poltrona, mi avvicino alla finestra, scosto la tenda, nel giardino vicino casa mia, vedo un’altalena, nessuna meraviglia è li da anni, il vento la fa muovere, il suo dondolio sembra volermi invitare. Socchiudo gli occhi, una leggera spinta, poi un’altra più forte, l’altalena si trasforma in un pendolo.