Il senso di un diario
“Il mio Martini segreto” (per i tipi del Centro ambrosiano), la ponderosa antologia del diario di don Gregorio Valerio, ultimo segretario del Cardinal Martini arcivescovo di Milano, dal 1996 al 2002, edita per ricordare i 40 anni della sua consacrazione episcopale e del suo ingresso a Milano, rappresenta in filigrana il manuale del buon segretario vescovile. Se tutti i segretari avessero pubblicato un diario simile… avremmo avuto informazioni e osservazioni che a distanza di tempo avrebbero illuminato tante situazioni del cosiddetto “Martini minore”.
Tale scritto è stato redatto negli anni da don Gregorio grazie ad un suggerimento dato ai seminaristi dall’allora arcivescovo Montini, di tenere un diario per riportare le emozioni di momenti eccezionali della vita. Costituisce altresì un “ripasso” del magistero del cardinal Martini, contestualizzato nelle pieghe dell’agenda (analogo lavoro aveva fatto il suo autista pubblicando qualche anno fa un diario degli spostamenti dei 22 anni in diocesi, un testo che poteva sembrare arido ma – visto con uno sguardo d’insieme – dà atto di un infaticabile, intenso, variegato raggiungere la diocesi in ogni angolo).
Cosa si evince dai commenti che ogni sera don Gregorio annota circa la giornata con l’arcivescovo?
Tante cose, a partire dalla manifestazione d’affetto della gente verso Martini che così “gelido” non doveva essere, come certa stampa lo descriveva. E toccava al segretario cercare di arginare tanto calore (soprattutto da parte dei brianzoli, sottolinea don Gregorio, il che è tutto dire….) anche perché il vescovo Martini amava la sua gente, si intratteneva volentieri durante le manifestazioni pubbliche, insomma “Sta volentieri tra la gente, ma nei momenti ufficiali. Poi si ritira nella sua camera, la cerca quasi fosse un rifugio”. Nell’ultimo periodo, nota don Gregorio, appare più sciolto anche nelle occasioni ufficiali e parla volentieri di sé, forse perché riteneva giunte a maturazione alcune esperienze di vita.
Gli impegni della vasta diocesi, i ruoli connessi all’episcopato, con tanti risvolti internazionali, vedevano il cardinale passare dalla visita pastorale a qualche minuscola parrocchia ai confini della diocesi a conferenze di rilievo in università dall’altra parte dell’oceano. La sua autorevolezza faceva sì che fosse richiesto non solo in diocesi ma anche in tutto il mondo per conferenze, visite, scritti, interviste. E toccava al segretario e al portavoce filtrare i numerosi inviti.
Una mole di impegni che, oltre alle presenze fisiche, richiedeva anche un lavoro di studio e di preparazione. L’arcivescovo cercava di soddisfare le richieste con grande sacrificio personale e avvalendosi di una agenda ferrea, predisposta proprio da don Gregorio, che si faceva scrupolo di non saper arginare eventi più grandi di lui e di non riuscire ad aiutare il suo vescovo ad eludere qualche impegno. Martini lo meritava anche per le tante premure dimostrate al segretario (si informava, infatti, se si trovasse bene in questo ruolo, se avesse bisogno di qualcosa) e a sua madre (a cui inviava doni in occasioni particolari), e al fatto che nelle tensioni del lavoro riusciva a dare serenità, e con la serenità si lavora molto meglio.
Gioie e amarezze di un vescovo
Dal diario emerge la figura di un vescovo che non vive più per sé, anzi non ha alcuno spazio personale, non può neppure passeggiare da solo: “Non poteva fare un passo che non fosse noto solo a lui. Sempre sotto i riflettori.” Se si recava in ospedale a visitare un prete ammalato o la mamma di un prete, gli toccava visitare tutto il reparto e pure benedire i malati gravi.
Con una battuta possiamo dire che forse per questo motivo Martini confidava di ritenere il carcere come il luogo dove si sentiva maggiormente a suo agio.
Anche le udienze private erano molto impegnative: ogni persona che incontrava aveva un problema da porre, “pasticci creati proprio da coloro che dovrebbero aiutare a risolverli”, chiosa don Gregorio (ma si tratta di una regola generale).
Di qui nasceva la gioia del cardinale di ritirarsi ogni tanto con qualche amico fedele per chiacchierare, pregare, preparare lettere pastorali e discorsi. Di sollievo gli era la cordialità che nei momenti conviviali era manifestata da parte dei vicari e dei collaboratori più stretti, anche per i rapporti fraterni tra di loro.
Non mancavano le difficoltà causate dall’interazione con persone poco rispettose o poco acute (il parroco che prendeva appuntamento per sé, con caratteristiche di urgenze, e poi gli mandava un visionario, o quello che si dimenticava di avvisare che – sia pur per ragioni oggettive – era stata rinviata la consacrazione della nuova chiesa, o quello che, per dirla con don Gregorio, “problemi non ne ha pochi, ma ne crea anche molti”). E da parte del vescovo mai una parola di stizza, anzi sempre comprensione, perché sapeva che i parroci sono in prima linea e tendeva a giustificarli se mancavano ad un ritiro, e a riceverli con priorità tutte le volte che lo chiedevano perché consapevole che erano bisognosi di un incoraggiamento da parte del vescovo. L’attenzione ai preti era tale che riceveva quelli che lasciavano il sacerdozio (anche dopo pochi mesi dall’ordinazione, una grande sofferenza per il vescovo) e li invitava nella sua cappella a pregare anche con “la signora”. Quando andava a celebrare i funerali di qualche prete veniva preso da commozione, “si coinvolge, prova autentica compassione” annota il segretario.
Martini era un uomo buono, non si lamentava mai di nulla o, come scrive don Gregorio, aveva il vizio di non lamentarsi mai, anche di possibili disagi. Non si ribellava a nessun appuntamento: “Pare che quell’agenda sia la concretizzazione della volontà di Dio al quale ha fatto voto di totale ubbidienza”.
Da qui il desiderio del segretario di essergli utile, di potergli evitare fatiche e grane, di agevolargli almeno la quotidianità. E i problemi non mancavano mai, anche i più folcloristici, come quando si seppe che il benestante Abriani aveva lasciato la sua sostanziosa eredità alla diocesi, e cominciarono a piovere richieste di somme anche ingenti da parte di parroci e laici, “per lo più dal Po in giù” annota con sagacia lombarda don Gregorio.
Annota tante altre cose come il fatto che qualche pranzo ufficiale durasse troppo, e al vescovo pareva di sprecare il tempo, “non gli piacciono le sedute a tavola”.
E, riguardo ai movimenti ecclesiali, che la vulgata diceva essere mal visti da Martini, cita una sua espressione: “se intervengo è perché vi voglio più bene degli altri”. Qualcuno, legato a opachi sistemi di potere, a tal proposito gliel’aveva giurata e così, appena poteva, faceva cadere qualche manciata di fango sulla porpora, attribuendogli inesistenti trame con il potere politico, denigrando il suo magistero con argomenti puerili e facendo squadra anche con qualche prelato compiacente (più o meno in buona fede) che non gli risparmiava qualche pubblica frecciata sulla stampa, motivata più dal desiderio di comparire e di minarne l’autorevolezza piuttosto che di capire il punto di vista dell’interlocutore. Il cardinale incassava con signorilità e prendeva l’iniziativa (di sapore evangelico) di telefonare direttamente per chiarire il suo pensiero. Don Gregorio riporta sconsolato la confidenza ricevuta da un vicario circa il fatto che le proposte di nomina episcopale fatte pervenire a Roma da Martini venivano bloccate, per cui, commentava con rammarico, “essere appoggiati da lui non conviene”.
Quanto ripugnante il peso delle cattiverie, non solo gratuite, ma orchestrate da quelle che oggi chiameremmo “macchine del fango”, al quale si aggiungeva il “fuoco amico” dei commenti malevoli di taluni preti che lo vedevano sempre in giro, e non capivano la fatica del vescovo di portare tutti…nel cuore.
I crucci del segretario
E ancora don Gregorio riporta da parte di Martini qualche mezza parola (mai di più) sulla noia di alcuni elevati consessi, sugli sgarbi di qualche porporato, sul dolore di qualche situazione familiare. E ancora arguti commenti circa la partecipazione ad eventi pubblici in cui la sua presenza generava grande attesa, entusiasmo, preparativi meticolosi, addobbi sontuosi, e poi… i presenti non sapevano neppure rispondere alle formule del rito.
Emergono anche piccole lezioni di vita che il cardinale dava al suo segretario: circa le modalità di leggere i (tanti) libri che giungevano sulla sua scrivania e sul come “trovare il nocciolo (non sempre) interessante tra tanto inutile impasto”, la preoccupazione di trovare sempre qualche piccola correzione in occasione della revisione dei suoi testi, il cercare l’ispirazione per un discorso che mediamente viene sotto l’urgenza dell’evento. Emerge anche la ritrosia verso eventi legati alla sua persona come compleanni e anniversari: “Gli anniversari a me non dicono niente, ma se sono riempiti della benevolenza degli altri, manifestano la gratuita benevolenza di Dio”, un modo per gioire dell’attenzione degli altri quale segno della benevolenza di Dio.
Da sottolineare anche i commenti del segretario a volte amareggiato da chi nutriva “manie di possesso” verso Martini, il sentore di dimissioni anticipate (effettivamente date ma respinte da Giovanni Paolo II) perché temeva di non avere più nulla di nuovo da offrire, situazione anche normale dopo tanti anni. Se avvertiva poco efficace il suo ruolo magisteriale, non esitava a voler abbandonare la cattedra episcopale (in questo caso non si può dire la poltrona), proprio per non venire meno a quel modo nuovo di fare il vescovo nella metropoli che gli era riconosciuto anche dai non credenti.
Don Gregorio si sofferma spesso sullo stile propositivo dell’arcivescovo. Anche davanti a mancanze o situazioni anomale, proponeva sempre il punto di vista positivo: più che condannare incoraggiava, dava una prospettiva non triste alle vicende.
Tra i crucci di don Gregorio quello di non essere riuscito ad essere per il suo arcivescovo “specchio intellettuale”, cioè a sapersi confrontare sui problemi e, nel confronto, permettere di precisare il pensiero. E infine la preoccupazione finale, dopo averlo accompagnato per l’ultima volta nella residenza dei gesuiti di Galloro, che la colazione non fosse così curata come quella preparata dalle suore in arcivescovado, che non avesse una linea telefonica esterna e una donna che facesse le pulizie in camera (tanto che il cardinale aveva chiesto di procurare scopa e paletta), salvo verificare che poi questi servizi gli sarebbero stati garantiti.
Un segno di umiltà di chi non ha vissuto gli onori e i vantaggi della carica, che pure ci sono stati, come un atto dovuto, ma come un segno di attenzione di chi ha cercato di ricambiare le fatiche e i sacrifici offerti per amore del suo popolo.