Mi sono sempre chiesto cosa renda il sistema educativo terziario degli Stati Uniti il migliore al mondo. Le università americane si attestano costantemente in posizioni di assoluto predominio nel campo della qualità dell’insegnamento e produzione scientifica, con addirittura 16 su 18 delle prime posizioni occupate secondo l’autorevole Academic Ranking of World Universities. Le due outsider sono, ovviamente, Oxford e Cambridge, rispettivamente alla quinta e decima posizione.
Ora che mi trovo a Cambridge, quella però del Massachussetts, ed ho la possibilità di toccare con mano le differenze nella migliore del mondo, Harvard, mi rendo conto di quale sia il suo vantaggio competitivo, che accomuna peraltro le altre università che posso frequentare, come MIT e Fletcher, nonché tutte le università americane. Il loro primato non è individuale ma sistemico, e va ben oltre la questione finanziaria. Sebbene è noto come solo Harvard ottenga fondi all’incirca pari a quelli governativi di tutte le università italiane insieme, c’è molto di più. Le università italiane, d’altro canto, mantengono una qualità accademica sui più alti standard internazionali nonostante siano spesso bistrattate dal palazzo, ed è pur vero che la nascita di nuove facoltà sovente di dubbio senso istruttivo o di facoltà valide in province periferiche e costose, provocano una grave dispersione di fondi. La corruzione dilagante, che non raramente porta a confondere gli organigrammi universitari con gli alberi genealogici, poi spinge a ribasso la performance culturale-scientifica ed operazionale, e concorre con gli uffici pubblici a fare dello spreco lo sport nazionale. I risultati peggiorano, i professionisti e gli studenti scappano, ed è oramai chiaro che il lassismo maccheronico riguardo tutti questi problemi non sia sostenibile.
Qui le università rendono conto del proprio operato. A chi? Beh, al mercato ovviamente. Sì, perché queste istituzioni sono per la gran parte private, e devono competere tra loro per ottenere i migliori risultati al minor prezzo.
Si eviti però la tentazione di attribuire i risultati al budget dei proventi della privatizzazione. Essa in realtà porta molti più rischi che benefici, essendo un accesso solamente elitario la probabile causa di una scarsa qualità degli studenti. Manco a dirlo, ciò non succede, perché chi è sufficientemente bravo da entrare in queste università, ha con tutta probabilità diritto ad uno student loan, un prestito studentesco, che ripagherà mano a mano dopo il termine degli studi. Trovare un lavoro, in questo meccanismo virtuoso di merito e produttività, non è un problema, e i prestiti vengono onorati con regolarità, il che mantiene basso il rischio e gli interessi bancari. Se le università performano male, per un cattivo management, investimenti sbagliati o sprechi intenzionali, perdono soldi, esattamente come un’azienda può rovinare la sua reputazione se tagli al budget si traducono in prodotti di cattiva fattura.
Chi può pagare in cash di solito lo fa, ma se l’accesso fosse limitato a coloro i risultati sarebbero pessimi. Inoltre ci sono molte scolarship, o borse di studio, parziali o totali, i cui beneficiari in Italia sono al contrario di ciò che accade in USA non raramente, come purtroppo ricordo dalle classi di medicina, i figli dei grandi evasori. E i nostri ricercatori, quei pochi che rimangono, sono costretti a fare i miracoli, pur riuscendoci, quando non vengono accusati di qualche crimine.
L’educazione è lo specchio di una civiltà, e quella italiana è senza dubbio in decadenza.
Altra fonte di reddito per le università sono le donazioni di alumni, ex studenti di successo, ed altri proventi sono frutto della solida partership nel caso qualche brillante studente abbia un’idea imprenditoriale. L’università fornisce supporto politico, logistico, tecnico e talora finanziario, diventando essa stessa azionista. La cultura crea soldi, i quali creano altri soldi.
Tutto ciò fa sì che le grandi università americane diventino un polo di attrazione per menti di tutto il mondo, costituendo un sistema che punta su multietnicità e multiculturalità di docenti e studenti, mettendo enfasi e tutelando diversity e inclusion. Il progresso è quindi proporzionale al confronto ed all’arricchimento dato dalla diversità culturale, etnica, religiosa, sessuale, esperienziale…
E noi? Noi siamo gli inventori dell’università, in piena involuzione. Sul lungo termine ciò si riflette in un’economia povera di idee e risorse.
Sopportate il parere di un italiano arrabbiato, ve ne prego, ma è frustrante assistere allo scialo di un grande talento. Il talento che più ci preme pare essere quello di Pellè e Balotelli… altri ‘cervelli’ in fuga…
Fabio Villa
Nato a Monza nel 1986 e si è laureato in medicina col massimo dei voti presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
Durante gli studi si dedica ad attività di volontariato in Italia ed all’estero (India, Nepal, Mali, Rwanda, Brasile, Cambogia).
Dopo tre anni di formazione chirurgica nel dominio cardiovascolare, ed un master in economia che l’ha portato in università quali Harvard e Fletcher, si è trasferito a Ginevra, ove si dedica all’esercizio della Psichiatria e Psicoterapia ed in parallelo a svariati progetti.
Vanta prestigiose pubblicazioni sulle più autorevoli riviste scientifiche, tra cui The New England Journal of Medicine.
Si dedica inoltre alla filosofia delle scienze ed alla storia delle religioni. Nell’aprile 2014 pubblica il libro Il Placebo. Viaggio nell’Idea di Dio (Aracne) nella collana Atene e Gerusalemme diretta da Giuseppe Girgenti, professore di Filosofia Antica ed allievo di Giovanni Reale.