Quando si parla di integralismo in ambito sociale o religioso, spesso non ci si rende conto di quali conseguenze esso possa avere sulla vita delle persone e delle società civili nell’ambito delle quali atteggiamenti radicali vengono evidenziati. Particolarmente vulnerabile sotto questo profilo è il mondo islamico, la “grande galassia musulmana” che a tutt’oggi sembra aver maturato meno anticorpi specifici rispetto alla “civiltà” occidentale.
Anche le nostre società cristiane, e cattoliche in particolare, hanno conosciuto periodi di grande oscurantismo al riguardo, si pensi all’Inquisizione o alle varie guerre di religione combattute in Europa nel corso dei secoli, ma oggi sotto questo profilo la situazione è sotto controllo. Grazie alla globalizzazione delle idee noi abbiamo quasi superato questo pericolo.
Nel mondo islamico la “violenza” – contemplata secondo precise modalità dalla Sharia, legge legata al Corano – si applica agli “infedeli”, ai non musulmani ma anche ai cosiddetti “fedeli” che nella loro quotidiana osservanza del Corano non sono diligentemente musulmani o lo sono in modo ritenuto sbagliato. Secondo questa legge costoro sono considerati destinatari naturali della “violenza islamica”. Il problema riguarda quindi gli altri, è fatto proprio come un dovere da ogni buon musulmano ma si riferisce alle azioni da svolgere verso gli altri, “infedeli” e cattivi “fedeli” che non ottemperano ai dettami del Corano.
Questa “violenza”, intesa non necessariamente solo in senso fisico ma piuttosto come concetto generale, riguarda il musulmano in quanto tale, perché quale individuo “fedele” egli deve obbligatoriamente essere partecipe e garante dell’ortodossia islamica.
E’ questo un argomento non privo di fascino e nel trattarlo si è solitamente presi dalla tematica generale. Così facendo nessuno affronta, per esempio, il problema particolare dell’impatto che queste regole possono avere sulla psiche di alcuni “fedeli” che sono pervasi dall’ossessione dell’osservanza, che sono persi dietro ad un radicalismo fatto solo di concetti assoluti, di norme prescritte ed obbligatorie da osservare senza eccezioni, pena la punizione più intransigente. Pochi, in definitiva si rendono conto che la Sharia può indurre singoli musulmani a condividere questa “violenza” e ad applicarla al limite anche contro se stessi.
Il problema è stato sollevato da France24 e riportato nel sito americano MEF che ha recentemente posto l’attenzione su un fatto accaduto all’inizio dell’anno in Pakistan. Un giovane musulmano, autoaccusandosi di blasfemia si è condannato alla mutilazione e si è tagliato personalmente una mano.
L’antefatto. Nel corso di una riunione in moschea dopo la preghiera del venerdì l’Imam, nell’affermare che coloro che amano il Profeta Maometto recitano sempre le loro preghiere, chiese se qualcuno tra i fedeli presenti non fosse invece abituato a non pregare.
Mohammad Anwar, un ragazzo di 15 anni ansioso di mettersi in mostra, impulsivamente alzò la mano, avendo erroneamente pensato che l’imam stesse chiedendo chi tra la folla fosse invece abituato a pregare sempre. Le conseguenze del suo gesto furono drammatiche. La folla scandalizzata, con veemenza ed atteggiamenti al limite della violenza, accusò il ragazzo di blasfemia. Emotivamente scosso dal trattamento subito e moralmente distrutto per la gravità dell’accusa, Mohammad corse a casa, si tagliò la stessa mano che aveva alzato nella moschea per segnalarsi all’Imam, la mise in un piatto e rapidamente tornò sui suoi passi per mostrarla al religioso direttore della preghiera. Sulla strada del ritorno il ragazzo fu acclamato dagli abitanti del villaggio ed i suoi genitori manifestarono pubblicamente il loro orgoglio” per il gesto del figlio che aveva voluto immediatamente purificarsi amputando la “blasfema appendice”.
Un solo commento. E’ un episodio che ha dell’incredibile per la drammaticità dei sentimenti che sottintende.
Quello di Mohammad non è però il solo esempio di autolesionismo riportato dalla stampa.
Nel 2013, Ali Afifi, un egiziano di 28 anni ladro da sempre, ha raccontato la sua storia ai media del Paese in un’intervista. Non riuscendo a smettere di rubare ed essendo un musulmano osservante, Alì decise di tagliarsi entrambe le mani per punire se stesso dell’essere un ladro e per impedirsi di continuare a delinquere. Abituato al furto fin dall’infanzia, non riusciva infatti a non dare ascolto alle “voci diaboliche che glielo imponevano”.
Soggetto da attenzione psichiatrica? Probabilmente si, ma non solo questo.
Non potendo procedere da solo all’amputazione, si recò da diversi religiosi islamici ai quali dichiarò di essere colpevole di furto e chiese di tagliargli entrambe le mani “in conformità con la Sharia che prevede appunto l’amputazione delle mani dei ladri (vedi Corano 5:38). Gli Imam rifiutarono di accontentarlo e lo invitarono a rivolgersi agli organi della giustizia preposti. Alì dovette quindi arrangiarsi da solo. Si portò vicino ad una linea ferroviaria, pose le mani su un binario del treno e attese che la locomotiva transitando gliele recidesse. Dopo aver ripreso conoscenza, corse verso la gente del paese agitando i monconi insanguinati e urlando: “gente ascoltate, ero un ladro, e per la lode ad Allah, mi sono redento ed egli mi ha perdonato.”
Al termine della sua intervista Ali ha affermato di voler d’ora in poi pregare ancora più intensamente per diventare un modello per ogni penitente musulmano ed auspicato che le autorità vogliano applicare la Sharia islamica con lo stesso rigore che lui aveva riservato a se stesso.
Preso atto di questi fatti di cronaca, si impone una riflessione sulle motivazioni che, al di là della retorica dell’osservanza delle norme ad ogni costo, possono portare un essere umano a simili gesti. Ed allora va considerato il contesto nel quale questi atteggiamenti di fanatismo nascono e si sviluppano. Cosa può significare per un musulmano autoaccusarsi e pretendere di applicare le punizioni draconiane della Sharia su se stesso, come nel caso di Mohammad, fino a tagliarsi una mano? Forse il ragazzo così facendo ha voluto impedire che gli fosse comminata una pena maggiore? In Pakistan, l’accusa di blasfemia è punibile con la morte, specialmente quando una folla inferocita (in questo caso, la congregazione di fedeli nella moschea) viene coinvolta. Egli può aver freddamente motivato a se stesso il taglio della mano come gesto necessario per rimediare alla sua “malefatta” che aveva dato scandalo ai Fedeli, per placare l’indignazione violenta della folla ma anche per guadagnarsi, vista la malaparata non guastava, il rispetto e la considerazione dei parenti, oltre a qualche lode da parte loro come poi realmente avvenuto.
Motivazioni che noi riteniamo aberranti – ma che sono possibili in simili contesti – mentalità da fanatici e conseguenti comportamenti che sono difficili da collocare in una logica di razionalità. Nel particolare contesto socio-religioso questo fanatismo, soprattutto se alimentato e stigmatizzato con pressanti incitamenti ed atti concreti da personalità carismatiche, porta a tragiche conseguenze, fa sicuramente proseliti.
Tutto questo ci aiuta forse a capire come possano nascere le figure dei cosiddetti kamikaze che vestono cinture esplosive e si fanno saltare in aria tra la folla. Per Mohammad l’alternativa poteva essere quella di essere ucciso dalla folla per blasfemia a seguito del suo improvvido gesto. Ricordiamo al riguardo un altro tragico fatto verificatosi sempre in Pakistan qualche mese addietro. Nella piazza di una città la folla inferocita ha preso in ostaggio una coppia di cristiani, li ha gettati in un forno acceso per bruciarli al grido di “Allah Akbar”, solo perché giudicati “infedeli” e blasfemi. Questioni di bassa macelleria si direbbe, ma non è così. Sono questi, fatti successi in due Paesi dove la Sharia è spesso applicata con rigore o dove le autorità consentono che comportamenti violenti riferibili ai dettami della legge islamica siano messi in atto da parte di singoli o da collettività. L’applicazione di questa particolare legge è permeata di imposizioni ed obblighi che devono essere indistintamente condivisi da tutto il popolo dei fedeli e che sono ribaditi ad ogni piè sospinto, come ha fatto l’Imam alla fine della preghiera nella Moschea pakistana del villaggio del povero Mohammad. La non osservanza porta a punizioni esemplari anche fino alla morte.
Possiamo concludere affermando che gli episodi citati costituiscono ovviamente dei fatti estremi, esempi al limite dell’incredibile che la mentalità e la cultura occidentale relegherebbe senza esitazione nel campo della psichiatria criminale e dell’autolesionismo fanatico e malato.
Sono episodi riconducibili ovviamente solo ad una piccola minoranza di musulmani, immersa nel più bieco integralismo religioso, formata da “fedeli” che arrivano senza esitazione a punire anche se stessi con estrema severità interpretando in modo radicale la Sharia. Ma è proprio questa fanatica minoranza che fa molto comodo al terrorismo internazionale di matrice islamica!
Ed allora partendo da qui si può pensare che tali accadimenti possano fare proselitismo anche al di fuori degli stati islamici e ritenere che la grande maggioranza dei musulmani sparsi sul pianeta, pur rifiutando gli estremismi, possa per cultura e formazione a sua volta condividere una più blanda applicazione della sharia anche ai non-musulmani, agli “infedeli nei confronti dei quali il Corano indica con precisione le “misure da applicare ed i comportamenti da tenere”.
Questo sentimento, che secondo alcuni analisti si sta diffondendo nella galassia dell’Islam mondiale, potrebbe portare a spiacevoli conseguenze anche nelle società occidentali dove le comunità islamiche stanno crescendo esponenzialmente di numero e nelle quali le recenti vicissitudini legate al terrorismo internazionale, hanno risvegliato sensibilità prima sopite. Partendo sempre da qui si può cominciare a comprendere meglio anche molti dei recenti eventi, non sempre edificanti giusto per usare un eufemismo, ai quali l’Islam è stato interessato.