La domanda alla quale intendiamo rispondere con questo articolo potrebbe essere: la crisi che investe i mercati mondiali fin dal 2008 ci ha insegnato qualcosa?
Rispondere non è poi così semplice. Un simile quesito richiede una risposta complessa talmente articolata da risultare difficilmente sintetizzabile in un articolo. Prenderemo in esame, quindi, un solo aspetto del problema; quello del valore sociale dell’impresa che, a nostro modesto avviso, ha fortemente influito sulle cause generatrici della crisi economica purtroppo ancora in atto.
Prima di affrontare la contingenza, è opportuno fare una premessa. Il problema del valore sociale dell’impresa non è certamente nuovo ed è stato affrontato a partire già dal XVIII secolo con scuole di pensiero e una letteratura vastissima che giunge fino ai giorni nostri e che ancora, con un dibattito in continua evoluzione, non ha approdato a conclusioni definitive.
Semplificando, possiamo dire che l’illuminismo britannico ha dato origine ad una teoria di pensiero secondo la quale il profitto è l’unico obiettivo che le imprese devono perseguire e che, per far questo, è condizione necessaria la rimozione dei vincoli al funzionamento dei mercati e alla libertà di comportamento degli operatori economici. Adam Smith spiegava che “non è dalla generosità del macellaio, dal birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei loro propri interessi”.
Assumendo il principio dell’interesse privato quale fulcro delle relazioni economiche, le imprese assolvono al loro ruolo sociale generando il buon funzionamento dei mercati.
Per lungo tempo questo “pensiero unico” ha dominato fino a portare al Premio Nobel, a metà del secolo appena trascorso, l’economista Milton Friedman. Questi, tenace assertore della teoria secondo la quale una volta rispettate le leggi l’unico compito del management è quello di generare profitto a favore degli azionisti (portatori di interessi derivanti dall’investimento di capitale, che le moderne scuole economiche definiscono shareholders), affermava che ogni altra teoria, e soprattutto quella della responsabilità sociale dell’impresa, risulta essere “profondamente sovversiva”.
Ad opporsi a questa teoria è la scuola di pensiero che ritiene la massimizzazione del profitto quale unica chiave di azione del management deleteria, sia rispetto la società e sia nei confronti della stessa azienda.
Se la teoria della massimizzazione del profitto poteva avere una sua qualche ragione in un contesto produttivo nel quale doveva rispondere a bisogni semplici, con lo sviluppo della forma di produzione avvenuta nella seconda metà del secolo scorso le cose cambiano.
La complessità del sistema, nel quale l’impresa si deve misurare con una concorrenza non più incentrata esclusivamente sul prezzo del prodotto ma sul mix prezzo/qualità/personalizzazione/servizio, impone all’imprenditore di muoversi lungo direttrici diverse, determinate da fattori quali la domanda di prodotti, l’offerta dei fattori produttivi, la concorrenza, l’innovazione.
Le variabili da prendere in considerazione sono molteplici e riguardano una serie di figure che, in modo diretto e/o indiretto, hanno interesse alla produzione dell’azienda. Sono questi i fornitori, i clienti, le maestranze, le autorità politiche e le organizzazioni sociali a vario livello (da quelli locali a quelli nazionali e anche oltre i confini nazionali) che vengono accumunate dal fatto di essere portatori di interessi vari, e non solo economici, nei confronti dell’azienda. Sono gli stakeholders.
La suola aziendale italiana, la più avanzata su questo fronte, evidenzia che anche per l’investitore è più opportuno che la produzione sia assicurata seguendo i criteri di un’assunzione di responsabilità sociale dell’impresa, perché questa contribuisce fortemente a quella creazione di valore dell’azienda che, non tenendo conto solo dei flussi di cassa, ma basando la propria progettualità in termini di vision e di mission, attraverso processi di “scoperta” di problemi e di “ricerca” di soluzioni, manifesta un’evoluzione degli attori (stakeholders) e di conseguenza dell’ambiente.
Situazione del tutto positiva anche per gli stessi investitori. La volatilità dei mercati, infatti, rende impossibile la redditività degli capitali investiti nel lungo termine e, quindi, l’azienda ben inserita nel contesto sociale e orientata alla soddisfazione di bisogni complessi, assicura maggiori garanzie di performance e quindi di una più probabile buona remunerazione del capitale investito.
L’impresa assume, in questo contesto, una rilevanza non solo economica ma anche sociale, producendo allo stesso tempo sia beni e servizi e sia relazioni di convivenza che si manifestano al suo interno e in rapporto alla società e all’ambiente.
Avviene così che i clienti soddisfatti danno stabilità all’azienda con la loro fedeltà, le maestranze opportunamente retribuite concorrono con le loro competenze, insieme ai fornitori tecnici esterni, alla qualità della produzione, la collettività e le istituzioni assicurano un contesto favorevole in quanto le aziende producono benessere e migliorano la qualità della vita.
Ma vi pare, cari lettori, che tutto ciò sia avvenuto nelle quattro banche fallite dove è evidente che l’unico obiettivo del management era fare soldi per loro e, scoperta di questi ultimi giorni, per i loro amici potenti che hanno disinvestito poco prima del fallimento (chissà chi li ha avvertiti!!) a danno della collettività?
E pensate davvero che il pensiero univoco della massimizzazione dei profitti sia proprio solo delle quattro banche fallite?
Ognuno di noi potrebbe portare un’infinità di esempi, molti dei quali hanno un elemento comune. Sebbene non tutti ovviamente, avete notato che la maggior parte di queste aziende sono caratterizzate dall’assenza di un controllo diretto della proprietà. Aziende nelle quali il management è designato dalla politica o da gruppi di potentato?
Banche, aziende pubbliche, aziende partecipate, sono quelle che più facilmente finiscono per cedere alle lusinghe della massimizzazione del guadagno a scapito, o senza tenere in alcun conto, degli interessi degli stakeholders.
Forse la soluzione dovrebbe passare non tanto dall’analisi delle capacità dei managers, quanto dagli obiettivi a loro assegnati.
Finché il criterio unico del riconoscimento del loro valore è il risultato di cassa, noi avremo banche che truffano i loro risparmiatori, Asl che non funzionano, servizi pubblici carenti, smantellamento dello stato sociale.
Ma avremo anche managers retribuiti in maniera spropositata per i risultati raggiunti.
Risultati che porteranno forse a temporanee brillanti situazioni di cassa, ma anche alla distruzione di quel tessuto sociale ed economico che, unico, può assicurare stabilità e sviluppo nel lungo periodo.
E’ evidente che dalla crisi economica che ancora ci attanaglia non abbiamo ancora imparato a trarne i dovuti insegnamenti.