Un insegnamento paterno che dischiude le porte di una nuova visione della vita. Il quinto libro di Giuseppe Selvaggi, nella recensione di Paolo Rausa.
“Un libro è come un figlio, va alimentato giorno dopo giorno sino a quando non cresce e allora le tue parole non sono più tue ma di chi vorrà accarezzarle e farle proprie”, questa considerazione dell’autore Giuseppe Selvaggi da Bisceglie, ma oramai milanese di Sesto San Giovani da molti anni, si accompagna a molti ragionamenti che sono stampigliati nelle sue composizioni. Un misto di poesie e di prose, uno stile che riprende la satyra latina, non con intenti moralistici di fustigazione dei costumi ma come riflessione, a volte dolce a volte melanconica. “A chi scrive capita di vivere più stati d’animo, che vanno dall’euforia a tracce di depressione”, aggiunge l’autore ammettendo che la scrittura libera il demone e dispiega la nostra visione del mondo. Di figli ne ha “generati” ben 5 extraconiugali Giuseppe Selvaggi, oltre alle due belle fanciulle con Antonietta. E ha cominciato ad una certa età, non giovanissimo, non solo per gli impegni dovuti al lavoro quotidiano ma quando la pulsione a scrivere è divenuta inarrestabile. Il percorso per raggiungerlo è descritto minuziosamente e diffusamente durante il viaggio quotidiano compiuto nel ventre della metropoli, nei profondi gangli dei suoi meccanismi produttivi, con l’osservazione di quei volti di laboriosi operatori professionali e nello stesso tempo anche di chi è rimasto al di fuori dei processi produttivi.
Numerosi clochard neppure allungano la mano per chiedere un obolo, forti dell’antica dignità ora seppellita dalla fretta. Scorrendo le composizioni liriche miste alle riflessioni in prosa si colgono una serie di temi che costituiscono il nerbo della sua esistenza, s/radicata da un Sud dove la natura e gli affetti gli hanno intrappolato il cuore. Il mare di Puglia e di Bisceglie con i suoi “vicoli del borgo antico, in cui non ancora disperse voci si odono… mentre il vento gioca a rincorrersi tra disabitate stradine e produce suoni quasi a provare accordi musicali…”, compare sempre nell’immaginario dell’autore, che ne sente la brezza aprendo la finestra di casa, anche se non vede le luci delle lampare. Solo le finestre illuminate come fari nel buio della notte occhieggiano. Il borgo natìo richiama la figura materna che sibila tra le onde come novella sirena e attira il nuotatore colto a rinfrescarsi nelle acque marine. Il padre Francesco lo accompagna giovinetto sulla spiaggia. Le loro orme leggere scompaiono tra il fluttuare delle onde. Le osservazioni del genitore richiamano il nostro passaggio sulla terra e l’andirivieni delle stagioni. Ecco allora il suggerimento paterno, che diventa il titolo del libro, a privilegiare l’autunno come stagione di passaggio “in cui il sole diventa solo un poco più avaro” e a “non stancarsi di cercare nuove primavere”, come stimolo a vivere intensamente la vita. Solo quando il padre è ormai stanco e sta per lasciare questa terra che Giuseppe Selvaggi comprende il suo messaggio di speranza e di vitalità. Anche se per lui la stagione piena di vita è l’estate, quella del rigoglio, quando finalmente può assaporare “i frutti maturi e saporosi appena raccolti”. Il tempo del viaggio richiama il ritorno, il nóstos, verso casa, ormai vuota… Qui finalmente si abbandona ai ricordi e alla pienezza vitale e può riflettere sulla nostra esistenza di attori e attrici, comparse, avvolte da maschere che indossiamo per ogni evenienza. Il nostro ruolo non è scontato, siamo chiamati a dare il meglio di noi stessi per migliorare la nostra esistenza, anche se poi per lo più i buoni propositi restano tali. Il tempo ritorna a suonare melodie cadenzate dal tic toc della lancetta, inesorabile. Perciò non ci resta che tornare a vivere in armonia con la natura, ammirando gli spettacoli delle albe e dei tramonti, sempre affascinanti, degli astri, del sole che infonde energia vitale, della poetica luna e delle stelle che infondono in noi la visione e la sensazione dell’immensità, volgendo in alto, verso il cielo, lo sguardo in contemplazione di tanta bellezza. Edizioni Secop, Corato (Ba), luglio 2020, pag. 110