“Il mio desiderio di fuga si è ben presto trasformato in bisogno di progettare la fuga più che di attuarla”.
Le riflessioni dello scrittore Giuseppe Selvaggi sul lockdown e la riconquistata (semi)libertà.
Cerco il telefonino che ho in mano. Gli occhiali dove li ho messi? Rovisto con fastidio, non ricordo dove li ho appoggiati, mi accorgo quando oramai cerco un colpevole di averli sul naso da più tempo. Mi succede più spesso di quanto io non voglia ammettere. Mi accorgo di fare la stessa cosa di chi pur possedendo quattro asini, ne contava tre, dimenticandosi di quello che cavalcava.
Distratti e dimentichi, cerchiamo qualcosa che abbiamo sotto gli occhi convinti di averla persa. Nei mesi di forzata permanenza in casa ho immaginato il mio spazio di libertà autentica fuori dalle mura di casa, il mio desiderio era fuggire o meglio anche solo andare oltre i 200 metri dal portone di casa. A tutto ci abituiamo e le piccole infrazioni alle regole diventavano inconfessate esigenze di violare regole anche solo di un metro, contento come un bambino che è convinto di averla fatta franca mi accorgevo poi che in spazi più ristretti la libertà l’avevo comunque a disposizione.
Il mio desiderio di fuga si è ben presto trasformato in bisogno di progettare la fuga più che di attuarla. Se li avessi conservati oggi avrei, a testimonianza di un passaggio di vita interiore e al tempo stesso collettivo, decine di fogli su cui ho tratteggiato capanne in riva al mare, corsi d’acqua che corrono nella campagna lombarda e le montagne che nelle giornate più limpide riuscivo a intravedere dal mio balconcino.
Quante volte in fila distanziata e in un silenzio generato da diffidenza mi sono ripetuto di non voler più vedere quei volti celati, quei giorni irreali. L’inattività genera in alcuni un rimando al dopo o al tanto prima o poi, in altri la sensazione che questo tempo sia stato una sorta di ”Tempo sospeso” che ha contribuito a indirizzare malinconicamente lo stato d’animo su riflessioni alla fin fine inutili quali la brevità della vita avvertita come una beffa. Ancora oggi penso di essere stato colpito dalla “Sindrome del pesce rosso”, esco di casa con dotazione d’ordinanza, mascherina e guanti e ho come l’impressione di essere scrutato, osservato, controllato…è solo una impressione, la gente ha altro per la testa.
Per giorni, nei mesi più critici, mi sono chiesto quale sarebbe stata la prima cosa che avrei fatto uscito dalla prigionia, il più grande desiderio era un caffè al bar degustato con lentezza, appena è stato possibile ho visto in Tv scene da “ Liberi tutti”, ho preferito rimandare e gustarmi il caffè sul mio balconcino lontano dalla folle folla.
Oggi cosa desidero veramente? Bella domanda. Verrebbe da chiedere se mai ce ne sia una di riserva. Mentre provo a rispondermi, mi succede di ricordarmi di quanto letto in un passaggio del libro Parerga e paralipomeni di A. Schopenhaure : “ci guardiamo in volto e abbiamo rapporti reciproci come maschere con maschere, giacché non sappiamo chi siamo; come maschere che non conoscono neppure sé stesse. E allo stesso modo ci guardano gli animali; e noi loro”. Dopo aver riportato questa bella citazione mi accorgo che ho aggiunto argomenti di riflessione ma non mi sono ancora risposto. La riconquista graduale di spazi di movimento e quindi di libertà in un recinto che sta gradualmente allargandosi non è ancora libertà. Ne “Il libro dell’inquietudine” Fernando Pessoa scriveva che: “Libertà è possibilità di isolamento. Sei libero se puoi allontanarti dagli uomini, senza che la necessità di denaro, o la necessità gregaria, o l’amore, o la gloria, o la curiosità che, nel silenzio e nella solitudine non possono avere alimento, ti obblighino a cercarli. Se per te è impossibile vivere solo, sei nato schiavo. […]
La domanda si ripropone con insistenza, oggi cosa desidero veramente? Per un attimo dismetto la faccia di chi deve sfornare una verità, giro il cucchiaino nella tazzina del caffè, è amaro! Non metto lo zucchero, quella del cucchiaino è una accortezza per non dover giustificare qualcosa che non piace a tutti, come la verità. C’è chi ha avuto l’onesta intellettiva di affermare quello che solo chi non ama le verità edulcorate può aver apprezzato e cioè che dopo questa emergenza non saremo migliori perché è nella natura umana dimenticare le tragedie per riprendere come se nulla fosse la vita di sempre.
Potrei uscirne affermando che: “In fondo me la sono cavata” anche questa volta le cose del quotidiano facilmente diventano difficili, questo aiuta a creare maggiore confusione e non sappiamo mai sino in fondo compiutamente spiegarci che influenza abbiano nel nostro modo di sentire la vita. Bisognerebbe avere voglia di addentrarsi nei segreti del malinteso per provare a rimuovere le cause che compromettono i nostri momenti di riappropriazione del tempo, dovremmo in sostanza concentrarci sui modi buoni o cattivi di vivere la vita. La prima cosa che farò, senza precipitarmi, nel futuro prossimo sarà andare al mare sperando di non dovermi mettere in fila per poter conquistare il mio posto al sole.