
Sin dagli albori della civiltà l’uomo prega l’Essere supremo, concettualizzato in svariate forme secondo il grado di sviluppo socioculturale nonché fattori esterni. Siccome non esiste culto che non sia soteriologico, cioè atto alla salvezza dell’anima, se si eccettuano i dogmatismi materialisti del Novecento, ma anche alla salvezza del corpo nella contingenza dell’esistenza terrena, autorevoli Gruppi di ricerca di sono adoprati a saggiare l’efficacia della preghiera. In questo studio in più puntate andremo ad esplorare i presupposti ed i risultati di tali studi, provando ad analizzare criticamente i risultati. Oggi introduciamo cosa sta alla base della verifica dell’effetto della preghiera.
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Una delle caratteristiche fondamentali di qualsivoglia religione o spiritualismo è la preghiera, intesa come atto volontario nel corso del quale l’uomo si pone in comunicazione col Trascendente. Si realizza per ringraziamento, lode, dovere e dunque imposizioni istituzionali, devozione e sottomissione, richiesta di realizzazione di interessi propri od altrui. Si distingue, almeno nelle accezioni più comuni, concettualmente dalla meditazione, che è una sorta di preghiera all’incontrario, una comunicazione del Trascendente al singolo, un’infusione sapienziale verso chi è ricettivo.
Ma oltre alla ragione per cui si prega è interessante valutare l’efficacia delle energie impiegate in tale esercizio spirituale. Insomma Dio, sempre che esista, ci ascolta? E se sì, quale dio ascolta chi?
E’ una domanda alla quale hanno tentato di rispondere anche autorevoli gruppi di ricercatori clinici, che hanno preso in esame uno dei motivi per cui indubbiamente si prega di più: la malattia. Si prega in genere per la guarigione di un caro, per sé o per tutti i malati, ma anche – e questo accade nei gruppi più aderenti ad una specifica interpretazione di sofferenza, essenzialmente alcuni cristiani – per l’efficacia espiatoria del dolore provato. Si prega dunque per l’anima propria ed altrui, per una piena coscienza del dono, o dell’occasione della malattia, che avvicina secondo costoro il sofferente a Dio, il Quale a Sua volta ha sofferto per mano dei miscredenti sulla Croce. È quest’ultima, a mio avviso, un’eccezionale dimostrazione di coerenza del fedele, che altrimenti si pone nella condizione di paradossalità.
In effetti è arduo capire perché molti, interpretando la malattia come volere divino e la sofferenza come atto necessario, tentino di opporsi ad esse sia pregando per un mutamento di stato (insomma per far cambiare idea a Dio) che ponendovi rimedio totale o, quando ciò non è possibile, parziale, alleviandole. Perché si curano, io mi domando. Dio permette il cancro, ma lo vuole? È davvero indispensabile? E, se questo è esatto, perché dovrebbe volere la terapia?
Non pochi gruppi di ricerca, il cui lavoro è riassunto di seguito, hanno tentato di verificare l’effetto della preghiera sull’outcome di pazienti, affetti talora da patologie acute, talora croniche o sottoposti ad intervento chirurgico. Studi che sono stati condotti in maniera, direi, diplomatica (immaginatevi se si fossero confrontati i risultati delle orazioni di gruppi di diversa professione di fede!) e metodologicamente, chi più chi meno, corretta.
Nonostante molti di noi abbiano vissuto fatti che hanno del miracoloso, che per eventi improbabili intercorsi non sono finiti tragicamente, al fine di dimostrare che se si prega le cose vadano meglio è necessario applicare i metodi della scienza quantitativa. Cosa vuol dire? Vuol dire che se prendo un paziente in condizioni critiche e prego per lui può migliorare o peggiorare, ma l’esito di questa mia osservazione non avrà alcun tipo di significato (o meglio di significatività statistica), in quanto non riusciremo – se non per convinzioni personali – a formulare un’ipotesi credibile sull’efficacia del mio intervento su quel paziente, se insomma il suddetto esito clinico (positivo o negativo) sia in qualche modo ascrivibile all’effetto della mia preghiera. Infatti un’eventuale correlazione potrebbe essere frutto del caso, oppure di fattori soggettivi fisici e psicologici: so che preghi per me quindi sto meglio, magari mangio di più; oppure ancora un paziente, quello per cui si prega, ha fortunosamente delle buone risorse fisiche ed è in grado di far fronte ad una complicazione postoperatoria a differenza di un altro. Se ripetiamo l’osservazione per un gran numero di pazienti, esisterà sempre un margine (sempre più ridotto in rapporto all’aumento del numero dei pazienti ed alla correttezza metodologica dello studio) di incertezza, ma avremo modo di dire se esista una correlazione tra preghiera ed outcome del paziente in esame.
Potrebbe sembrare riduttivo ma gli strumenti matematici danno credito al risultato di un’osservazione, che senza di essi avrebbe una codifica discrezionale e inaffidabile. Un esempio? L’8 maggio 1980 una commissione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara eradicato il Vaiolo, malattia infettiva mortale in un terzo circa dei casi, tristemente nota per i reliquati cicatriziali che lasciava a chi ne era affetto. Fu un medico e naturalista britannico di nome Edward Jenner, negli ultimi anni del XVIII secolo, a scoprire che inoculando il vaiolo vaccino (etimologicamente ‘delle mucche’, anche se ora utilizziamo il termine per qualsivoglia immunizzante nei confronti delle infezioni) in soggetti sani si riduceva l’impatto del vaiolo umano [1]. Le osservazioni che hanno portato all’utilizzo estensivo della vaccinazione ed infine all’eradicazione possono sì essere frutto del caso, così come l’immensa mole di risultati positivi ottenuti in duecento anni, ma tuttavia è poco probabile. È invece scientificamente dimostrabile, il che non vuol dire sicuro ma quanto più riproducibile ed avente un rapporto causa-effetto accertato in numerosi casi, che la tecnica abbia funzionato, così come oggi possiamo dire che funzionano l’antibiotico, l’antidepressivo, la riabilitazione ortopedica e quella neuropsicologica, la chemioterapia, la chirurgia e così via.
Preghiera, un caso a parte
Nel caso della preghiera però non tutto è misurabile: lo sarebbe ad esempio un miglioramento clinico del paziente, sia esso fisico o psicologico (minor incidenza di infezioni di ferita, o riduzione dei livelli di ansia rispetto al controllo), ma non lo sarebbe un eventuale beneficio dell’anima, ammesso che esso non si rifletta nemmeno sulla psiche (poiché anche in tal caso dovremmo verosimilmente vedere il paziente meno ansioso). Non è detto infatti che tale miglioria si traduca in termini emotivi; potrebbe assumere invece valore escatologico, avvicinando l’uomo a Dio, magari facendogli scontare un po’ della pena in purgatorio o salvandolo dall’inferno Tuttavia molti, io dico quasi tutti, pregano per la guarigione del corpo, o per alleviare le sofferenze proprie o dei propri cari, talvolta di sconosciuti, nel caso delle orazioni dei fedeli più zelanti. Messe, veglie, cattedrali e moschee posseggono un’utilità tangibile oltre al fenomeno colletivistico? Si è tentato di capire se nell’attualità – che qualcuno supporrebbe contingenza – della carne, e della carne malata, pregare per qualcuno serva.
Fabio Villa
Nato a Monza nel 1986 e si è laureato in medicina col massimo dei voti presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
Durante gli studi si dedica ad attività di volontariato in Italia ed all’estero (India, Nepal, Mali, Rwanda, Brasile, Cambogia).
Dopo tre anni di formazione chirurgica nel dominio cardiovascolare, ed un master in economia che l’ha portato in università quali Harvard e Fletcher, si è trasferito a Ginevra, ove si dedica all’esercizio della Psichiatria e Psicoterapia ed in parallelo a svariati progetti.
Vanta prestigiose pubblicazioni sulle più autorevoli riviste scientifiche, tra cui The New England Journal of Medicine.
Si dedica inoltre alla filosofia delle scienze ed alla storia delle religioni. Nell’aprile 2014 pubblica il libro Il Placebo. Viaggio nell’Idea di Dio (Aracne) nella collana Atene e Gerusalemme diretta da Giuseppe Girgenti, professore di Filosofia Antica ed allievo di Giovanni Reale.