Un’esperienza intensa, quella del tango argentino, un abbraccio serrato che vuole presenza, un contatto corporeo che svela l’inaspettato, una forma di terapia dell’anima che apre nuovi percorsi interiori.
Uno sguardo si appoggia in occhi altrui. È ricambiato. I corpi, allora, attirati nello spazio di un abbraccio, s’incontrano. Le mani si cercano. Occhi negli occhi prima che le palpebre si adagino, spalancando il buio. È tango.
Nel silenzio di un abbraccio, i corpi volteggiano, un dialogo danzato che dura il tempo di una tanda. Inno alla reciprocità. Sembrano essersi già appresi, quei corpi sconosciuti, è la pelle che lo sa. Sensorialità, percezione, istinto, bypassano le sovrastrutture della razionalità.
Respirano: niente è più privato di un respiro.
A volte è rilassatezza, altre imbarazzo, a volte è presenza, altre distanza, a volte è calore, altre assenza, a volte è noia, altre smarrimento…
Quel ritmo condiviso è reso possibile da un “noi”, che risucchia l’“io” e il “tu”, serrandoli in un abbraccio, che per sua natura è apertura all’altro, ma è solo l’energia che trasuda dai corpi a decretarne l’evenienza. Quella stretta, fulcro imprescindibile, si fa metafora di una relazione a cavallo tra autonomia e sana dipendenza: il contatto tra i corpi è intenso, ma non si deve pesare sul partner, pena un goffo procedere.
È la fusionalità a rendere il ballo armonico: se non c’è connessione, l’equilibrio collassa e le gambe pennellano il pavimento senza trovare rispecchiamenti. Un ascolto partecipato, dunque, è la chiave di volta, qualcosa che chiede fiducia e affidamento. Fiducia in primis in se stessi, poiché per affrontare un tango bisogna fidarsi innanzitutto del proprio corpo, poi della propria capacità di stare in ascolto del corpo altrui, una bella sfida per la propria autostima, insomma.
In qualche modo, quell’appuntamento muto tra corpi si fa metafora di istanze e vissuti più profondi: quel “noi” del tango dice qualcosa di sé. Cosa ti evoca un abbraccio serrato, molle o assente? Cosa senti di fronte ad un contatto autentico, caldo, accogliente? Come reagisci ad un invito, un senso di accoglienza, all’invasione del tuo spazio, alla sensualità, all’invadenza…? Cosa appartiene a te, cosa è dell’altro? Forse provi emozioni che rammentano frammenti della tua storia personale, vissuti inattesi che, serpeggiando, si fanno largo, bisogni inappagati che borbottano attenzione… ll tango ti costringe a “sentire” quelle parti di te, accoglierle, accettarle e farci i conti se vuoi continuare a ballare.
Rifiuto compreso. Già, perché il tango è uno sguardo, un invito, un abbraccio, ma è anche un rifiuto: il mio sguardo si posa su di te, ma la “mirada” non trova risonanza, è rifiuto della tanda. La poetica della seduzione è anche rifiuto. Ballare è anche questo: difficoltà. Anzi, gestione interiore della difficoltà.
In barba ai tempi moderni che fanno della “liquidità” il loro substrato (relazioni liquide, modernità liquida, amori liquidi – lascio a voi cogliere il senso di questo aggettivo o di leggerlo attraverso il pensiero di un grande sociologo quale è Bauman), il tango offre autenticità. Nessuna bugia: la relazione tra i corpi avrà vita il tempo di una tanda – 4 tanghi, una relazione intensa solo se si investirà nella danza con tutto ciò che si ha, che si sa, ma tutto si consumerà con l’ultima nota. Carpe diem! Forse, però, qualcosa resterà più a lungo, una vibrazione sorda, figlia del pathos. Chissà.
Bada bene, il tango esige presenza, obbliga al de visu, reclama contatto, in cambio offre un matrimonio tra corpi, condivisione, sensualità, ma non è sessualità e allora presuppone un’alta consapevolezza della propria individualità, un lasciarsi andare con riserve.
È in questa continua tensione tra ciò che accade dentro di sé e ciò che tale sentire svela alla coscienza, che il tango presenta la sua impronta terapeutica. Sottesi a quell’abbraccio stanno i grandi temi della vita: perseverare vs scivolare nell’incostanza, soprassedere vs rischiare, scegliere l’assertività vs cedere alla passività, controllare vs abbandonarsi, osare la vicinanza vs imporre la distanza. In questo movimento dicotomico sta la possibilità di conoscere parti di sé, magari lasciate sullo sfondo, fino alla possibilità di accoglierne le sfumature, guardando con compassione alle indesiderate, segnando il passo verso altri, nuovi possibili se stessi. E l’anima fa un balzo in avanti.
Il tango si fa terapia nel momento stesso in cui rende il “sentire” grande protagonista, come avviene nello spazio di cura, dove la riconnessione tra mente e corpo offre alle emozioni la forza di esistere in tutta la loro sostanza e ai bisogni, ai desideri, la possibilità di esserci come graditi ospiti d’onore. È allora che un tocco delicato, uno sguardo suadente, un abbraccio contenitivo, possono costituire un’esperienza di guarigione che non ti aspettavi, trasformando una condizione interiore che sembrava immutabile. È allora che la parte di te ferita o incapace di affermare se stessa può essere curata dall’esperienza di condurre nel ballo o di lasciarsi condurre, assaporando la possibilità di essere vista, prendersi un posto, rischiare, affidarsi, esserci, abbandonarsi…
Il tango è terapia conclusa quando impari a celebrarne i passaggi in uno stato di piena presenza, facendo del qui e ora parquet sul quale roteare: incontrarsi, donare, ricevere, ringraziare, salutare, congedarsi. Proprio come dovrebbe essere nella vita. E l’anima ringrazia.
A volte rimani, perché nella vita esistono anche le appartenenze, ma quella è un’altra storia ancora.