La mostra a cura di Francesca Caldari, che sarà inaugurata sabato 2 settembre alle ore 18, presenta una trentina di opere, la maggior parte inedite, appartenenti alla più recente produzione dell’artista.
“Sfogliarsi”, il titolo scelto per l’esposizione, evoca qualcosa di mutevole, come lo è la natura che cambia, come l’erba che viene mossa dal vento, come le stagioni che si alternano, come l’acqua che scalfisce le rocce con il suo scorrere, come il passaggio inevitabile dal giorno alla notte.
Nulla sulla terra è duraturo, eterno, definitivo, ma sempre soggetto al mutamento, allo “sfogliarsi”.
Pilò parte con il suo racconto da uno scatto fotografico, (non esce mai di casa senza essere accompagnato dalla sua macchina fotografica, strumento indispensabile per fermare nella memoria emozioni e suggestioni che lo circondano) ma non lavora mai direttamente su di esso.
Già di per sé i suo scatti sarebbero opere d’arte capaci di emozionare, ma a Pilò il solo scatto seppur efficace non sembra bastare, non riesce del tutto a comunicare il suo intento di narrazione.
La fotografia nuda e cruda sarebbe solo un mero gesto estetico, un compiacimento del saper cogliere istanti, attimi, il vantarsi di saper catturare suggestioni magari inconsuete, rare, difficili e talvolta magnifiche.
Ciò che l’artista vede e sente, però, la sola macchina fotografica non riesce ad esprimerlo.
Sopra a questo supporto che sostituisce la tela, Pilò applica pellicole fotografiche che derivano dall’esperienza nel mondo della grafica, quasi per proteggere la sua narrazione, poi interviene con la materia, data dal colore e scontorna la parte di pellicola non utilizzata.
Successivamente, aggiunge quanto in quel momento preciso della creazione lo coinvolge, altre foto, carte, squarci di tele, tutte le contaminazioni sia positive che negative gravitanti sulla percezione e lo stato d’animo attuale dell’artista, questo perché vuole trasportare l’osservatore nel suo mondo interiore.
Nelle opere di Pilò, realtà e gesto artistico si fondono insieme e la sua maturità artistica si evince nella crescente volontà di togliere, di alleggerire dal superfluo e di rendere le opere sempre più decifrabili e scevre di superflui orpelli narrativi.
Ogni opera, è un singolo racconto autonomo pur facendo parte di una medesima narrazione e ci mostra costantemente il rapporto tra uomo e natura.
E’ un rapporto ovviamente sbilanciato, dove l’uomo, come nella visione ungarettiana, ha la stessa fragilità di una foglia appesa ad un albero.
L’uomo è apparentemente assente dalle sue narrazioni, ma ne è visibile il segno del passaggio, del suo cercare di prendere il sopravvento.
Negli ultimissimi lavori, la materia data dal colore è ancora più presente; dello scatto fotografico di partenza resta solo lo scheletro, il contenitore che racchiude un paesaggio dentro un altro paesaggio.
Pilò, si può a ben ragione, definire un poeta della narrazione, un sublime interprete della natura.
Dei primi timidi paesaggi, in cui la fotografia rimaneva senza indugi a dominare lo schema compositivo dell’opera, non resta che un vago sentore; ora Pilò domina la composizione con i suoi verdi pastosi, i suoi azzurri delicati ma allo stesso tempo splendenti, che invitano alla riflessione e alla interiorizzazione.
In certe opere, quasi, pare di sentire il rumore dello scorrere dell’acqua, il flebile frusciare del soffio del vento e l’odore dell’erba e del terriccio bagnato, quanto sono vividi i colori.
A Pilò, artista di indiscutibile spessore umano e artistico, non interessa però copiare pedissequamente la realtà che ci circonda come farebbe un buon paesaggista a livello scolastico, a lui preme trascendere ciò che vede l’occhio umano e che ferma sulla carta con la macchina fotografica e trasfigurarlo con gli occhi dell’anima.
Maurizio Pilò nasce a Faenza il primo maggio del 1957. Dopo il Diploma al Liceo Artistico di Ravenna frequenta l’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Segue i corsi di Umberto Folli, Tono Zancanaro, Remo Muratore, Paolo Racagni, Vittorio D’Augusta, Eugenio Carmi e Gabriele Partisani. Conclude gli studi con una tesi dal titolo “Segno naturale, segno artificiale”, relatore il Prof. Claudio Spadoni.
A metà degli anni novanta stabilisce il suo studio a Santa Maria in Fabriago, piccolo borgo nella campagna romagnola vicino al fiume Santerno e iniziano le sue prime mostre di pittura.
Ha tenuto molte mostre collettive e personali.
Hanno scritto di lui: Francesca Caldari, Giulio Guberti, Danilo Montanari, Angelamaria Golfarelli, Gino Gianuizzi, Raffaele Quattrone, Alberto Gross, Aldo Savini, Nicola Cavallini, Luca Donelli.
Fonte: Francesca Caldari – Romagna Fiere