Da piccolo mi incantavo a guardare le vetrine dei negozi di giocattoli e le bancarelle di palloncini e giochi vari piene di colori e vivacità in occasione delle feste paesane.
Cosa cercavo? Non mi hanno mai interessato i palloncini, i peluche e le papere con le ruote, i giochi per bambini in voga all’epoca. Meglio qualche accessorio da sceriffo, oggetti dinamici, un casco, una cinta spaziale, la scimitarra di Sandokan, soldatini di plastica già pronti per la battaglia, macchinine varie e di ogni dimensione.
Mi affascinavano, stimolavano la fantasia ad inventare nuovi giochi, aprivano nuovi orizzonti.
Oggi mi manca lo stupore che quelle vetrine mi procuravano. Quando trovo per strada un negozio di giocattoli, quasi per riflesso condizionato, rivolgo uno sguardo curioso. Ma non mi piace più nulla. Non mi attirano più giochi banali e neppure quelli ultratecnologici. Negli anni della mia infanzia non esistevano i giochi elettronici, ma c’erano orsetti colorati e caricati a molla e, soprattutto, giochi che potevano essere utilizzati all’aperto e in compagnia.
Mi manca l’incanto che provavo davanti alle vetrine, l’ammirazione per qualche giocattolo particolare, il desiderio di farmelo acquistare, il timore di un diniego.
E’ vero che con l’età cambiano, giustamente, anche i gusti. Ma non posso non ricordare la tenerezza e la fantasia che procuravano quelle vetrine con la loro bella ed elegante esposizione di novità.
Lo stupore di quelle vetrine richiama l’infanzia, e il suo mondo fatto di cose semplici, giochi tra amici, genitori che sapevano dire no, gioia del dono offerto per una ricorrenza o un risultato scolastico o una festività. Nulla era a caso o affidato al capriccio del momento, tutto doveva essere meritato. Per mesi la faccina indugiava sulle vetrina quasi a pregustare, prima che il dono e l’acquisto, l’occasione per meritarlo e la ricorrenza che avrebbe giustificato l’acquisto.
Quando l’obiettivo era raggiunto, quel giocattolo offriva ancora tante occasioni ed emozioni: lo si mostrava agli amici, lo si condivideva, lo si scambiava con altri giocattoli, lo si prestava, lo si portava in casa degli amici o per la città. Allora la città finiva con le ultime case e la campagna iniziava immediatamente dopo i quartieri periferici, che poi – nei piccoli paesi – erano più vicini al centro di quanto si pensasse. Quel paesaggio cangiante come la natura a seconda delle stagioni stimolava la fantasia, rappresentava ampi spazi che si ritenevano irraggiungibili dagli adulti, dove ci si poteva nascondere, giocare, creare un mondo parallelo, un luogo dell’anima che i nuovi quartieri hanno portato via insieme ai ricordi di gite, di scampagnate, di giochi, di sogni, di storie inventate e condivise tra amici. Lì non c’era bisogno di giocattoli, neppure di un pallone. Certi monticelli di terra o campi non arati ricchi di arbusti e papaveri, diventavano essi stessi materia per il gioco, per inventare situazioni, battaglie, nascondini e nascondigli, magari aiutandosi con fionde e carretti costruiti con scarti trovati in casa, che aiutavano la manualità.
Ora al posto di quei luoghi sorgono palazzoni, parcheggi, ampie strade. Anche in città i vecchi negozi di giocattoli sono scomparsi a vantaggio degli ipermercati che hanno tutto a prezzi competitivi.
Resta ancora il ricordo di quei negozietti multi-prodotti, in cui gli scaffali dei giocattoli suscitavano curiosità e interesse, e vedo ancora su quella vetrina il nasino di un bambino timido e sognante, che pensava all’amore di chi quei doni, magari con qualche sacrificio, glieli avrebbe acquistati per godere della dolcezza del suo sorriso e della sua gioia.