La Fondazione MAST presenta per la prima volta in Italia una mostra interamente dedicata all’opera che il fotografo americano W. Eugene Smith (1918-1978) ha realizzato a partire dal 1955 su Pittsburgh, (Pennsylvania, USA), la città industriale più famosa del primo Novecento.
A cento anni dalla nascita di uno dei protagonisti della fotografia mondiale, la mostra al MAST presenta una selezione ricca e significativa del lavoro su Pittsburgh, che W. Eugene Smith ha realizzato lasciandoci il ritratto grandioso e autentico di questa dinamica città americana al culmine del suo sviluppo economico e alcune delle immagini più profondamente umane nella storia della fotografia.
L’esposizione al MAST, a cura di Urs Stahel, propone il nucleo principale di questo lavoro magnifico e sofferto: 170 stampe vintage provenienti dalla collezione del Carnegie Museum of Art di Pittsburgh sulla città e insieme sull’America degli anni cinquanta, tra luci, ombre e promesse di felicità e progresso.
Il progetto, considerato da Smith l’impresa più ambiziosa della propria carriera, segnò un momento di svolta nella vita professionale e personale del fotografo. A trentasei anni, dopo i successi e la notorietà ottenuti documentando come fotoreporter alcuni dei principali avvenimenti della seconda guerra mondiale per “Life”, Smith decise di chiudere con la rivista e con i mal tollerati vincoli imposti dai media per dedicarsi alla fotografia con una maggiore libertà espressiva.
Come spiega Urs Stahel, “W. Eugene Smith lottava per rappresentare l’assoluto. Ben lungi dall’accontentarsi di documentare il mondo, voleva catturare, afferrare, almeno in alcune immagini, niente di meno che l’essenza stessa della vita umana.”
Il primo incarico che Smith accettò fu di realizzare in un paio di mesi un centinaio di fotografie su Pittsburgh per una pubblicazione celebrativa sul bicentenario della sua fondazione.
La città era in pieno boom economico grazie alla crescita dell’industria siderurgica e in particolare delle sue acciaierie, che garantivano lavoro e attiravano operai da tutto il mondo.
Smith rimase affascinato dalla città dell’acciaio, dai volti dei lavoratori, dalle sue strade, dalle fabbriche, dagli infiniti particolari e dalle contraddizioni del tessuto sociale, registrandoli meticolosamente per comporre il ritratto di una città a tutto tondo. Questo semplice mandato si trasformò così in uno dei progetti più importanti della sua vita. In circa tre anni realizzò instancabilmente 20.000 negativi, 2.000 masterprint e per tutta la vita cercò, senza riuscirci mai completamente, di produrre il saggio definitivo che avrebbe rivelato l’anima della città senza lasciare fuori nulla, un’opera senza precedenti nella storia della fotografia. Solo una piccola parte di questo lavoro venne conosciuto dal grande pubblico, tramite il “Photography Annual” del 1959, l’unica rivista su cui Smith accettò di pubblicare le sue foto perché gli garantì il controllo assoluto sulle 36 pagine intitolate Labyrinthian Walk, rifiutando importanti offerte economiche da “Life”. Il risultato non fu all’altezza delle aspettative di Smith, che continuò per anni ad avere come priorità la pubblicazione di un intero libro su Pittsburgh.
La selezione di immagini esposta nella PhotoGallery del MAST offre un quadro intenso e rappresentativo di questo progetto di cui lo stesso Smith, riconoscendo le difficoltà incontrate nel comporre in un’unica opera i contrasti di una città così complessa, affermava: “Penso che il problema principale sia che non c’è fine ad un soggetto come Pittsburgh e non ci sia modo di portarlo a compimento”.
La mostra, inaugurata lo scorso 16 maggio, è curata da Urs Stahel e organizzata dalla Fondazione MAST in collaborazione con Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, Pennsylvania, e resterà aperta fino al 16 settembre.
URS STAHEL, CURATORE DELLA MOSTRA E DELLA PHOTOGALLERY MAST
All’inizio degli anni trenta il sistema della stampa illustrata aveva raggiunto un suo primo momento culminante. Inventata e sviluppata nell’Ottocento quale forma abbreviata e parallelo visivo della novella o del romanzo borghese, negli anni venti la fotografia iniziava la sua marcia trionfale grazie a numerose novità, come la macchina da stampa veloce, la rotativa, il procedimento a scala di grigi, la stampa a due e a più colori. Pioniere in Germania furono la “Berliner Illustrirte Zeitung” e la “Arbeiter Illustrierte Zeitung”, con una tiratura che superava, in entrambi i casi, le 500.000 copie. Negli anni trenta questa nuova forma di storytelling, con molte fotografie e testi di accompagnamento, si diffuse in tutti i paesi.
È questa l’epoca in cui nacque W. Eugene Smith, più precisamente nel 1918 a Wichita, nel Kansas. Già a sedici anni iniziava a fotografare e pubblicare. Dopo il suicidio del padre, una tragedia per la famiglia, studiò fotografia all’Università di Notre Dame in Indiana, ma dopo un anno abbandonò i corsi, si trasferì a New York e proseguì come freelance per la Black Star Agency e, tramite quest’agenzia, per “Collier’s”, “Parade”, “Time”, “Fortune”, “Look” e “Life”, per molte importanti riviste degli Stati Uniti. Dal 1944 cominciò a viaggiare come corrispondente di guerra per “Life”, fu gravemente ferito in Giappone e dal 1947 al 1954 lavorò a tempo pieno per la rivista. In pochi anni diventò, insieme a Margaret Bourke- White, uno dei grandi eroi del reportage e del saggio fotografico. Il medico di campagna, Vita senza germi,Il villaggio spagnolo, La levatrice, Charlie Chaplin al lavoro, Il regno della chimica e Un uomo compassionevole sono, oggi come allora, tra i servizi più celebri che siano mai stati realizzati per riviste illustrate. Sequenze di fotografie che intendevano trasmettere un significato di per sé, le fotografie di W. Eugene Smith andavano molto oltre i consueti reportage fotografici. Le sue immagini erano buie, a volte perfino cupe, molto cariche, non intendevano descrivere il mondo ma contenerlo, non riprodurlo ma, per così dire, darlo alla luce loro stesse.
Al culmine della sua fama di fotografo per riviste, dopo soli sette anni di impiego a tempo pieno per “Life” – seguiti da un altro paio d’anni di lavoro su commissione – nel 1954 W. Eugene Smith abbandonò tutto e lasciò la rivista per un diverbio. Era un fotografo difficile, il suo modo di portare avanti le commissioni ricevute era complesso, tortuoso, non consegnava mai un lavoro in tempo, non era mai soddisfatto del layout delle immagini, dell’impaginazione, dell’intensità delle foto stampate, delle didascalie, dell’intera presentazione della story, come si diceva. Si liberò dal sistema degli incarichi, dal lavoro dipendente, alla ricerca di maggiore profondità, autenticità, verità, sospinto dal desiderio di trovare l’assoluto, di essere davvero pronto e presente nei rarissimi attimi in cui la verità della vita si manifesta nelle apparenze del mondo.
La rottura con la stampa, con le riviste, con i media, rappresentò una cesura nella sua vita, e da ultimo anche una rottura con la famiglia, con la moglie Carmen Martinez e con i quattro figli. Si trovò di fronte a un grande bivio personale e professionale: fu costretto a vendere la sua casa a Croton-on-Hudson, N.Y. e
si trasferì a New York, dove andò ad abitare in uno loft all’interno di un edificio in cui suonavano jazz, sulla Avenue of the Americas, dalle parti del tratto meridionale della Ventesima strada, in quello che un tempo era il Flower District di Manhattan. Ad acuire il suo isolamento gli giunse la richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, tra le 80 e le 100 foto della città di Pittsburgh. L’incarico si trasformò gradualmente nel progetto più ambizioso della sua vita, e poi nel suo fallimento più doloroso. Invece che per un paio di mesi, Smith continuò a fotografare per due o tre anni, rimanendo poi impegnato per il resto della vita in innumerevoli tentativi di produrre, a partire dai quasi 20.000 negativi e 2.000 masterprints, il grande colpo, il libro definitivo su Pittsburgh, la città industriale più famosa del primo Novecento.
In questo progetto W. Eugene Smith lottò per rappresentare l’assoluto. Ben lungi dall’accontentarsi di documentare il mondo, si propose di catturare, afferrare, almeno in alcune immagini, niente di meno che l’essenza stessa della vita umana.
Dobbiamo a W. Eugene Smith, fotografo pressoché folle, uno dei ritratti di città più grandiosi e alcune delle fotografie più profondamente umane che si conoscano, nonostante egli abbia lottato invano per vent’anni della sua vita per passare dalla rappresentazione al quadrato nero (come Malevič), dall’immagine alla reliquia, dall’effimero alla verità. Nella storia della fotografia nessuno mai aveva tentato questa impresa con una tale tormentosa veemenza: Smith non voleva rappresentare il sangue, lui cercava il sangue.
Foto in evidenza: W. Eugene Smith ( A. Crane).
Fonte: Ufficio Stampa Lucia Crespi