Chi non sa godere del piacere dell’ozio è equiparabile alla volpe, non potendo raggiungere l’uva la considererà acerba e quindi cosa non buona rinunciando a un piacere che le è precluso per “statura”.Se potessi trovare il modo, restando ozioso, di sentirmi utile e fare il mio dovere, ritroverei una parte della beatitudine di cui godo in quei momenti di esilio dalla follia quotidiana. Ora che dopo un breve intervallo di lucidità nei disordini della vita, sono tornato alla frenesia della metropoli, alla calca dei mezzi pubblici e al bla bla bla quotidiano fatto di cifre, proiezioni e statistiche, celebrare con un’apologia dell’ozio la pigrizia attiva contro un modo di intendere il lavoro, che ha schiavizzato, demoralizzato e depresso così tanti di noi.
Non credano gli iperattivi che sia facile contemplare l’infinito, il non fare nulla è la cosa più difficile del mondo, è esercizio che solo in pochi possono osare senza perdersi, in fondo l’ozio è il padre di quei vizi che ce lo fanno amare. Il non avere nulla da fare era la condizione di beatitudine del primo uomo avanti la sua caduta. L’amore dell’ozio resta lo stesso nell’uomo caduto, ma la maledizione pesa sempre sull’uomo, non in quanto dobbiamo guadagnare la vita col sudore della fronte, ma in quanto, per le nostre convenzioni morali, non possiamo essere felici oziando. Spesso mi è capitato di osservare, durante i miei viaggi, che molte persone del cosiddetto “terzo mondo” trovano la felicità in piccole cose e, pur non disponendo di grandi mezzi, sono grati per quello che hanno. La cura di sé dovrebbe soppiantare l’attivismo a ogni costo. La strada verso il benessere passa di qui: dalla riflessione, dall’introspezione, dalla possibilità di coltivare i rapporti sociali, da una ritrovata capacità di conversare con gli altri, da un altro modo di rapportarsi con i propri simili e con la natura. Lavorare, anche duramente, è ancora necessario. Quello di cui dobbiamo liberarci è l’opinione per cui se non primeggiamo non siamo nessuno. Dobbiamo forse smetterla di identificarci totalmente con il lavoro, capire che siamo qualcosa di più e di diverso perchè questa corsa frenetica alla “carriera” lavorativa ci ha resi più cinici e opportunisti. Personalmente sono tra i cultori dell’ozio “vecchia maniera” ossia quello che si pratica leggendo un libro, andando a spasso senza un’apparente meta, il parlare con i passanti e la gente che non si conosce senza i convenevoli del sottonascosto “lei non sa chi sono io” e che dire dell’inutile contemplazione di un’alba o un tramonto privilegiando le poche vere amicizie magari gustando un cocomero al gelo.