Domenica 10 dicembre a 94 anni è scomparso a Stresa nella casa dei Rosminiani mons. Antonio Riboldi, figura di spicco della chiesa italiana nella seconda metà del Novecento.
Originario della Brianza e religioso rosminiano, fu prima parroco a Santa Ninfa nella valle del Belice in Sicilia per vent’anni, nel periodo del terremoto del 1968, dove lottò per la dignità e una migliore qualità della vita dei baraccati e contro gli appetiti della mafia, poi per ventidue anni fu vescovo di Acerra in Campania, paladino contro la camorra mettendo in serio pericolo la sua incolumità personale (fu uno dei primi vescovi sotto scorta).
Agli sputasentenze che lo accusavano di protagonismo rispondeva che occorre smuovere le acque perché la gente non vive senza speranza. E così fece lui, come parroco e come vescovo, arrivando fino a prendere per il bavero un “uomo d’onore”. E’ infatti noto l’episodio che vide contrapposto mons. Riboldi al boss locale, patrocinatore della processione del patrono di Acerra San Cuomo. Il vescovo, consapevole dell’intervento poco limpido del boss locale nella gestione della festa patronale, proibì la processione ed espose un manifesto in cui, tra l’altro, scriveva: ”Si alla festa e al pane, no alla prepotenza”. Il camorrista affrontò mons. Riboldi in piazza e gli intimò di piantarla con “chille fesserie”. Riboldi lo pigliò per il bavero e gli urlò “Come osi contro un vescovo?”.
Durante una marcia a Torre Annunziata a seguito di fatti di sangue colà avvenuti, disse: “Prima di parlare di diritto al lavoro bisogna pensare al diritto alla vita. …. Pace significa lavoro, casa e libertà. Ma se uno ha solo la casa e il lavoro, la casa diventa una tomba e il lavoro serve a pagare la tangente. … Dobbiamo poter dire: da noi c’è la camorra, ma noi non siamo la camorra”.
A titolo personale ricordo in particolare un paio di manifestazioni del 1984 nel barese che avevano avuto relatore apprezzato mons. Riboldi, alle quali – adolescente – avevo partecipato, riuscendo a cogliere lo spessore del vescovo, il suo legame con il Sud, la capacità di parlare ai giovani per orientarne l’esistenza verso la legalità e il rispetto.
Il 2 febbraio 1984 si svolgeva a Giovinazzo un incontro diocesano per la Giornata della vita dal titolo Pace e vita unico impegno svoltosi in due tappe: la prima nella parrocchia di sant’Agostino per una veglia di preghiera animata dal vescovo don Tonino Bello, la seconda presso il palazzetto dello sport, dopo una fiaccolata, per ascoltare proprio mons. Riboldi, giunto appositamente da Acerra.
Il settimanale diocesano di Molfetta, “Luce e vita”, lo presentò con queste parole: “Mons. Riboldi è noto per la sua ferma e coraggiosa opposizione contro ogni forma di sopruso e in special modo contro la delinquenza organizzata, mafia e camorra soprattutto, che da sempre, investono la diocesi dove è stato chiamato ad operare. Le battaglie sostenute con altrettanta forza e coraggio quando era parroco di Santa Ninfa, nel Belice del post-terremoto, a sostegno di quella povera gente bisognosa di tutto, contro i ritardi della burocrazia statale e le speculazioni dei politici locali, ne hanno fatto un uomo di primo piano”.
A Giovinazzo, tra l’altro, aveva detto: “Non può esserci vita se prima non c’è pace, e non ci sarà mai pace vera e duratura fra i popoli, le nazioni, gli uomini, se prima ciascun uomo non si impegna a cercare la pace dentro sé stesso, a rinnovarsi, perché la pace nasce soltanto da un cuore nuovo”.
Il 29 giugno dello stesso anno mons. Riboldi parlò a Bari a un convegno regionale organizzato dall’Azione Cattolica dal titolo Dalla ricerca di Dio al servizio dell’uomo. Oltre a Enzo Bianchi di Bose e al vescovo di Bari Magrassi, c’era mons. Riboldi con il suo sguardo limpido e penetrante. Parlando sul tema fede e giustizia aveva detto circa i suoi parrocchiani: “A Santa Ninfa la casa era il massimo e io ho lottato per dare loro la casa. Io, però, non ho mai pensato a costruirmi la casa. Alle loro domande stupite rispondevo: non mi costruisco la casa per evitare discussioni ai miei eredi e per non farmela portare via dal terremoto. Mi sto costruendo una casa in cielo. Qui anche una baracca mi va bene. Se non diventeremo anche noi poveri non se ne farà mai niente”.
Andando oltre nel suo intervento aveva anche detto che è necessario modificare il modo di pensare e di essere: “Occorre una nuova cultura: prima ci voleva madre Teresa di Calcutta, ora ci vuole una madre Teresa del libro”.
La riflessione che maturai allora fu quella dell’importanza di dedicarsi al servizio verso la società senza lasciarsi intrappolare nella rete dei pregiudizi e degli idoli.
Ricordo con tenerezza questi episodi che mi hanno formato e hanno posto le basi per la crescita umana e il futuro di tanti giovani.
Mi resta nella memoria l’immagine di mons. Riboldi, che durante la marcia della pace giovinazzese, dopo aver risposto alle domande di alcuni giornalisti, prese a braccetto il vescovo di Molfetta don Tonino Bello, altro prete significativo per la chiesa italiana negli anni Ottanta, e si avviò con il corteo.
Di don Tonino, in una commemorazione, mons. Riboldi ebbe a dire: “E’ capace di spalancare le porte della sua casa e di farci abitare quanti hanno bisogno di affetto e di un tetto, così come sa aprire il suo cuore a chi soffre. Con la sola differenza, che la sua casa può accogliere pochi; il suo cuore può ospitare tutti. Per tutto questo gli voglio bene, un grande bene. Gli sono amico e grande amico: ma a volte, e senza alcun smarrimento, mi sento semplicemente un discepolo”.
Mons. Aldo Del Monte, arcivescovo emerito di Novara, scrisse nella prefazione al volume di mons. Riboldi “Per amore del mio popolo non tacerò” (Paoline 2003): “La Chiesa deve essere Chiesa, deve riuscire a trovare anche lì la forza di rompere certe tradizioni che fanno ritenere lecita una mediocrità di comunicazione che non è più evangelizzatrice, che non fa capire che la santità è nel bello, così come hanno saputo fare monsignor Riboldi, don Tonino Bello, don Pino Puglisi e altri coraggiosi testimoni”.
Una sequenza di testimoni che hanno ancora tanto da insegnare a tutti, indicando una strada ancora lunga da percorrere, fatta di impegno, e costellata di maestri con il cuore entusiasta.