Le vicende e i ricordi degli anni scolastici della fanciullezza non possono prescindere dalla figura del compagno di banco.
Forse oggi non lo riconosceremmo più, non sappiamo individuarlo nella folla della piazza del paese, non ne abbiamo seguito più le vicende, ma il nome e il volto (quello di quarant’anni fa) ci sono ancora familiari. Inteneriscono il cuore. E richiamano episodi, pur lontani e minimi, che hanno contribuito alla nostra crescita e maturazione umana.
Il compagno di banco è icona dell’infanzia e di quanto allora era connaturato al nostro contesto sociale e umano: la scuola, subito dopo la famiglia, occupava buona parte della nostra giornata, tra ore di lezione, compiti a casa e la familiarizzazione con gli amici di scuola, di cui il primo, il primus inter pares, era proprio il compagno di banco, con cui ci si accordava per organizzare i compiti e – dopo aver finito di studiare – un po’ di monellerie in giro per il quartiere e i suoi spazi: giardini, piazze, edifici abbandonati, campagne, portoni.
La scuola era, e dovrebbe essere ancora, una grande palestra di socializzazione e di allenamento ai rapporti umani che sostanziano la vita. L’indole socievole di ciascuno aiuta in questo. Se i docenti, insieme con la famiglia, orientano e agevolano tali rapporti, è ancora meglio. Con il compagno di banco ci si divideva o scambiava la merenda, si commentavano le affermazioni della maestra, ci si aiutava durante i compiti e le lezioni, magari ci si suggeriva pure. E si rideva, si rideva tanto. Ogni occasione, anche banale, era buona per ridere, per distrarsi, per sciogliere la tensione della scuola, che è una cosa seria e come tale va vissuta e considerata. Con lui si instaurava un rapporto di grande complicità, che nasceva spontaneamente dopo che la maestra indicava i posti il primo giorno di scuola (altro tema meritevole di un capitolo a sé). Ci si studiava, lo si osservava, e poi la vicinanza anche fisica favoriva un rapporto che da bambini nasce in modo agevole e spontaneo rispetto alle convenzioni e prevenzioni dell’età adulta.
In quel rapporto ci si iniziava o allenava alla solidarietà, dividendo la merenda, aiutandosi coi compiti, magari portandoglieli a casa quando era ammalato. Il telefono non si usava, ma si usava molto il citofono per chiamarsi e sostare nel portone o per strada.
Era il confidente, un complice di marachelle, il sostegno valido in ogni momento, dentro e fuori scuola. Un riferimento insomma, sulla base di affinità e simpatia che quel legame del banco – magari all’inizio imposto – creava, prima di trasformarsi in amicizia.
I giochi in quel periodo prevedevano la presenza e strumenti molto poco tecnologici, anzi molto artigianali. Un asse di legno trovato per strada, sistemato con ruote, cartoni, stoffe, diventava, nella fantasia creativa del momento, un’astronave. Si giocava a squadre, si rafforzava lo spirito di gruppo, senza retorica ma con tanta semplicità.
Il rapporto tra fanciulli era più solido quando era alimentato anche dall’amicizia tra le rispettive famiglie, coinvolgendo i fratelli più grandi.
Oggi rimane il ricordo dell’antico compagno. Non lo si conosce più. Diventa anche difficile (e forse inutile) rintracciarlo su facebook. Terminata l’età dell’infanzia, salvo casi eccezionali legati a percorsi comuni successivi, è normale perdere i contatti.
Capita che ci si possa ritrovare, ma condividere i ricordi risulta sterile, i tanti anni passati hanno affievolito la memoria di episodi comuni, che hanno perso interesse. Restano le emozioni di un ritorno al passato, in un periodo semplicemente lieto e felice, come le poesie che ci facevano studiare e che ripetevamo insieme a casa. E che tornano a galla nei momenti di relax o di malinconia.