Per la Brexit, decisa dagli Inglesi con il referendum del 23 giugno, sembra che dopo le fibrillazioni iniziali che facevano presagire immediatezza di espulsione, l’Europa non abbia più fretta. Si è deciso di riflettere. Non mancano comunque le posizioni fuori da questo nuovo coro, concordi sul lungo periodo ma dure nelle condizioni da fissare per l’abbandono.
Tanto per fare un esempio, il Ministro dell’economia tedesco Sigmar Gabriel ha detto recentemente:“il Regno Unito deve pagare per la sua uscita altrimenti l’UE è nei guai”. Ed ha insistito affermando anche che Londra deve ora assumersi la responsabilità del voto che ha appiccicato all’incolpevole Europa la brutta etichetta di “continente instabile” agli occhi del mondo. Ha sentenziato anche che la Brexit è più un problema psicologico e politico che economico. Bontà sua! Ma c’è di più, Gabriel ha anche aggiunto che a Londra non deve essere consentito di “mantenere le cose belle” che aveva avuto con l’adesione all’UE, come l’accesso privilegiato al grande mercato europeo, senza che si assuma concretamente (leggasi deve pagare) la responsabilità per le conseguenze del Brexit.
Reso noto il risultato del referendum, tutti gli occhi sono stati puntati verso la Germania dalla quale ci si aspettavano indicazioni per una via di uscita dalla crisi a salvaguardia dei rimanenti 27 partner. Ma la Germania non aveva soluzioni di pronta attuazione perché, come tutti, non si aspettava questo esito del referendum. “Siamo tutti d’accordo che l’uscita della Gran Bretagna avrà un grande impatto sul futuro nell’Unione europea- ha affermato la Merkel – ma piuttosto che correre rischi di ulteriore fallimento è preferibile prendere tempo per cercare la soluzione migliore, concordata e quindi valida per tutti”.
Più chiaro di così. Evidentemente le affermazioni categoriche del suo ministro Gabriel non sono del tutto condivise dalla Cancelliera, forse perché fortunatamente la catastrofe planetaria che avrebbe dovuto portare l’Europa al collasso non si è verificata.
La Merkel, si è compilata una fitta agenda di consultazioni, ha recentemente incontrato vari leader europei in previsione del vertice UE di Bratislava fissato per il 16 settembre, è informata del fatto che qualunque decisione venga presa in quella seduta la Gran Bretagna non sarà disponibile ad iniziare il processo di uscita prima della fine dell’anno. Calma piatta. Prudenza condivisa e diffusa.
I leader di Italia, Francia e Germania a Ventotene hanno detto che il voto inglese non segna la fine dell’Unione e si sono impegnati a rianimarla per rafforzare la sicurezza, promuovere la crescita ed il futuro dei giovani. Punto e a capo.
D’altro canto – la Merkel in quell’incontro lo ha ricordato – l’Unione era nata in uno dei “momenti più bui” della storia europea. Con lo spirito vincente di allora deve oggi riformarsi. Serve un’Europa diversa da quella che ha fallito i suoi obiettivi. Non è un compito facile perché i governanti devono anche affrontare le sfide dei partiti euroscettici e populisti ciascuno in casa propria. Cosa succederà dopo le elezioni del prossimo anno in Francia e Germania e ad esito cognito del referendum costituzionale in Italia? Vedremo.
Nel frattempo possiamo però affermare che la Brexit più che distruggere l’UE sembra averle offerto l’occasione per rigenerarsi in modo da poter accogliere veramente in un unico abbraccio tutti gli Stati, secondo nuove regole e procedure che consentano di esaminare e soddisfare tutte le differenti istanze dei popoli e non solo quelle dei maggiorenti.
Proprio questa è la soluzione individuata dall’autorevole Istituto Bruegel, think thank economico basato a Bruxelles, già presentata nelle maggiori capitali, a Londra, Bruxelles, Berlino e Parigi. Roma è stata dimenticata. Il progetto prevedrebbe per l’Unione due strutture concentriche, la prima composta dalle Istituzioni comunitarie e dai governi uniti in una stretta integrazione politica quali responsabili delle decisioni sovranazionali, poche, ma per tutti. La seconda, esterna e periferica, luogo dell’economia, dove la flessibilità sia di casa, dove si parli di partnership a livello continentale, dove potrà quindi essere presente anche la Gran Bretagna “divorzista”, soprattutto in campo commerciale.
Di fatto un “campo aperto” dove ciascuno potrà mantenere le proprie regole anche in settori critici come quello dell’immigrazione.
In sintesi, si pensa ad una comunità europea tutta nuova aperta non solo ai partner ufficiali ma anche ad altri stati, che già collaborano in varie forme e con vario impegno con l’Unione di oggi.
Da una “tragedia annunciata” la Brexit potrebbe trasformarsi quindi in un grande vantaggio per tutto il vecchio continente.
Staremo a vedere. Certo che pochi potevano pensare che la Gran Bretagna con il suo “peso globale” sarebbe stata cacciata dalla sera alla mattina, punita per gli esiti del suo referendum che hanno in qualche misura offeso la burocrazia di Bruxelles.
Un’avvisaglia del reale potere inglese si era avuta già alla fine dello scorso anno quando l’ex premier britannico Cameron andò baldanzoso a Bruxelles a presentare le sue condizioni per la permanenza del Regno Unito ed ottenne condizioni scandalosamente vantaggiose per Londra a scapito degli altri partner (cfr. miei precedenti su Farecultura:“Unione Europea:saluti, noi Inglesi ce ne andiamo” n.8 nov.2015 e “Vertice europeo di Bruxelles del 18 febbraio……..” n.11 feb.2016). Poi questa vittoria non gli è servita ed ha perso il referendum, ma osserviamo che anche le sue richieste di allora appaiono oggi nel progetto del Bruegel, opportunamente estese a tutti i possibili partner. Sarà solo una coincidenza?
Certo in questo momento nessuno vuole contrapposizioni, l’Europa sta perdendo peso economico ed indebolirsi ulteriormente non è il suo obiettivo. Le sfide sono importanti, meglio ricercare la collaborazione di tutti. Con buona pace del rigido ministro tedesco Sigmar Gabriel e dei suoi diktat.