In questi giorni troviamo nelle sale cinematografiche italiane due film statunitensi interessanti: “Il corriere — The Mule” di Clint Eastwood e “Green Book” di Peter Farrelly
“Il corriere — The Mule” segna il grande ritorno di Clint Eastwood contemporaneamente davanti e dietro la macchina da presa, a dieci anni di distanza dal successo di “Gran Torino”. Il film non delude le attese e si ritaglia un posto importante nella lunga e gloriosa filmografia del regista americano.
L’anziano Earl Stone (Clint Eastwood), floricoltore del Michigan e reduce della Guerra di Corea, accetta un lavoro da corriere per fronteggiare la cessazione della sua attività. Viene assunto da un cartello messicano per trasportare con il suo pick-up della merce che, col passare del tempo, crescerà sempre di più in peso e valore. Con i tanti soldi facili provenienti dal nuovo lavoro Earl riesce a tornare a una vita dignitosa e nutre la speranza di essere nuovamente accolto dalla sua famiglia, trascurata per tutta la vita per dedicarsi al suo lavoro. Earl attira però le attenzioni sia dell’agente della DEA Colin Bates (Bradley Cooper) che dei capi del cartello messicano. L’anziano corriere scopre così che la merce che trasporta scotta molto e che mette a rischio la sua vita.
Nel film sono presenti tutti i temi cari al cinema di Eastwood: dal senso dell’onore al ritratto dell’americano bianco medio – razzista, pragmatico e in difficoltà nei rapporti umani, fino allo svelamento della fragilità umana.
A 88 anni Clint Eastwood ci regala un film intenso, schietto, commovente, con una regia essenziale messa al servizio della storia, ispirata alle vicende di Leo Sharp narrate nell’articolo “The Sinaloa Cartel’s 90-Year-Old Drug Mule” di Sam Dolnick sul “New York Times Magazine”. Una storia a cui Eastwood sembra aver aggiunto qualche elemento autobiografico, come l’aver chiesto a sua figlia Alison Eastwood di vestire i panni della figlia di Earl Stone.
“Il corriere — The Mule” è forse il manifesto testamentario di uno dei grandi maestri del cinema americano contemporaneo.
Il secondo film che merita attenzione, anche per le cinque nomination agli Oscar 2019, è “Green Book” di Peter Farrelly, autore di numerose commedie demenziali di successo come “Tutti pazzi per Mary” e “Scemo & più scemo”. Un film “on the road” che racconta l’America razzista degli anni Sessanta. Il nome della pellicola si riferisce alla guida stradale “The Negro Motorist Green Book”, realmente esistita, che segnalava i locali e gli alberghi dove venivano accettati gli afroamericani durante i drammatici anni della segregazione razziale.
New York, 1962. Tony Villalonga, detto Toni Lip (Viggo Mortensen), è un italoamericano di New York che lavora come buttafuori nel locale Copacabana. Una volta chiuso il locale Tony è costretto a tornare al vecchio lavoro di autista e accetta l’offerta di Don Shirley (Mahershala Ali), un talentuoso e raffinato pianista afroamericano che è in procinto di fare un tour nel Midwest e nel profondo Sud razzista. Inizia così un viaggio pieno di insidie che farà nascere una profonda amicizia tra Tony e Don Shirley, così diversi ma in fondo così uguali.
La pellicola è un raffinato prodotto d’intrattenimento, impreziosito dalle grandi prove dei due attori principali che sono valse due nomination alla prossima edizione degli Academy Awards: Viggo Mortensen, ingrassato di venti chili per interpretare il ruolo del rozzo Tony Villalonga e il premio Oscar Mahershala Ali.
L’opera di Farrelly si regge sul rapporto dialettico tra questi due personaggi agli antipodi, personificazione della dicotomia cafoneria/ignoranza – raffinatezza/istruzione. “Green Book” è inoltre sorretto da un’ottima colonna sonora e da una sceneggiatura brillante che funziona. Diversi sono i momenti coinvolgenti all’interno del film e vengono alternati con abilità gli ingredienti della commedia a quelli del dramma. Peccato che il finale sia troppo scontato e poco memorabile.