È da almeno dieci anni che si parla della realizzazione di un biopic sulla straordinaria e irripetibile storia dei Queen, leggendaria band inglese, e del suo carismatico leader Freddie Mercury, uno dei performer più grandi di tutti i tempi. Il progetto è finalmente giunto a conclusione con il film “Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer (“X – Men”, “Operazione Valchiria”), prodotto tra gli altri dagli unici due componenti dei Queen ancora in attività: il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor.
L’idea di trasporre cinematografica-mente l’incredibile vicenda artistica e personale di Mercury e soci era piena di insidie, con il rischio di ritrarre la “Regina” come un mito o di farne una macchietta. Un ruolo difficilissimo che è stato abbandonato anni fa da Baron Cohen per divergenze creative e toccato alla fine al giovane attore Ramy Malek, californiano di origini egiziane. In un lungometraggio di finzione di poco più di due ore era impensabile raccontare nei minimi dettagli l’intera carriera dei Queen e del suo carismatico frontman. E infatti il film si concentra sui primi 15 anni della band, dal 1970 al 1985, anno del Live Aid e dell’apogeo della formazione inglese in termini di popolarità e successo.
“Bohemian Rhapsody” è un film riuscito a metà perché non racconta in profondità né l’epopea dei Queen, né la poliedrica e indecifrabile personalità di Mercury. Un po’ come la vita di Freddie, veloce e pirotecnica, è un buon film d’intrattenimento ma presenta non pochi difetti e delude le aspettative dei più esigenti. Un’operazione che si concentra più nel riprodurre fedelmente alcuni episodi fondamentali della storia della band (tra tutti la lunghissima sequenza finale dedicata alla performance del Live Aid) ma senza darne un’interpretazione o un taglio d’autore.
D’altro canto uno dei punti di forza della pellicola è sicuramente l’aver azzeccato l’attore protagonista Ramy Malek, calato perfettamente nei panni del performer nato a Zanzibar. La somiglianza con il personaggio originale cresce poi nella seconda parte del film, quando si passa agli anni Ottanta e ai famosi baffi del cantante.
Un altro asso nella manica del film è la colonna sonora (una delle migliori della storia del cinema), ma su questo aspetto non c’era da temere, visto lo straordinario repertorio musicale targato Queen. Le canzoni fungono anche da collante tra le diverse lacune della sceneggiatura.
“Bohemian Rhapsody” racconta bene la relazione amorosa e indissolubile tra Freddie Mercury e Mary Austin (Lucy Boynton): un rapporto nato a Londra agli inizio degli anni Settanta, quando prevaleva l’eterosessualità in Freddie e proseguito poi nella fase successiva, quella omosessuale, sotto forma di amicizia immortale. Tra i momenti più toccanti del lungometraggio va sicuramente annoverata la scena in cui Mary capisce che qualcosa è cambiato per sempre nel suo fidanzato, che però le assicura amore eterno perché nessun’altra persona lo comprenderà mai così bene come lei. Un amore immortalato nella bellissima canzone “Love of my life”, scritta da Freddie e contenuta nell’album-capolavoro “A Nigth at the Opera”.
Il film riesce anche a far rivivere alcuni dei maggiori momenti creativi della band, raccontando la genesi di alcune loro hit: da “Killer Queen” a “Bohemian Rhapsody”, passando per “We Will Rock You” e “Another One Bites the Dust”.
La pellicola risente però di diversi problemi accaduti in fase di realizzazione, tra cui il licenziamento del regista Bryan Singer, sostituito da Dexter Fletcher che non figura tra i crediti. In “Bohemian Rhapsody” mancano i guizzi creativi sia sul piano della sceneggiatura che della regia, tenendo conto che il materiale di partenza era straordinario.
A parte Freddie Mercury, gli altri tre membri della band – John Deacon (Joseph Mazzello), Brian May (Gwilym Lee) e Roger Tayrlor (Ben Hrdy) – appaiono solo marginalmente nel racconto, come amici-parenti del carismatico ma problematico frontman. Non viene mai fatto cenno ai miti musicali dei quattro musicisti e la genesi della band viene descritta in maniera molto superficiale. Per chi è un fan dei Queen sarà difficile accettare che nel film la cronologia degli eventi venga completamente ignorata e gettata nel caos.
La scelta di iniziare e chiudere il film con il concerto memorabile del Live Aid del 1985, che consacrò e rilanciò i Queen grazie alla migliore performance live di sempre, può simboleggiare la gloria immortale raggiunta da Freddie e soci, al di là della prematura scomparsa di Mercury e della conseguente fine della band. È discutibile però la scelta di dedicare ben quindici o venti minuti di pellicola alla minuziosa ricostruzione del live tenutosi allo stadio di Wembley, se non per ottenere lo scopo di far divertire il pubblico in sala e catapultarlo sul palco del Live Aid.
Il tema della bisessualità – omosessualità di Mercury viene rappresentato in termini molto banali e irrealistici. In tutta la pellicola si trova un’unica sequenza, poco trasgressiva, dedicata ai famosi party del cantante (basta vedere il videoclip di “Living on My Own” per farsi un’idea). In realtà i Queen erano famosi negli anni Settanta per organizzare feste faraoniche e memorabili (famosissimo il party per il lancio del disco “Jazz” a New Orleans nel 1978, con la partecipazione di lottatrici nude nel fango, nani, mangiafuoco, etc.), ma nella pellicola sembra che il solo personaggio vizioso sia Mercury, perso tra sesso, droghe e alcol, anche a causa dell’influenza di un personaggio negativo del suo entourage.
Nel film si addossa poi tutta la colpa del momentaneo stop delle attività del gruppo, nella prima metà degli anni Ottanta, all’egocentrismo di Freddie e alla sua voglia di intraprendere una carriera da solista. Nella realtà anche altri membri della band iniziarono a intraprendere carriere autonome (come nel caso del prolifero Roger Taylor) o collaborazioni (John Deacon), perché il successo dei Queen iniziava a pesare e a stressare tutti, soprattutto dopo il flop di “Hot Space” nel 1982. Erano quattro artisti straordinari dalle personalità poliedriche, forti e autonome che, quando veniva fuori la quadra del cerchio, formavano un’unica entità chiamata Queen.
“Bohemian Rhapsody” riesce comunque a emozionare in diversi momenti: dall’ilarità di alcune scene dedicate al lavoro in studio della band, alle sequenze coinvolgenti delle performance live. Toccante anche il momento in cui viene affrontato il tema dell’AIDS contratto da Mercuy e la sua consapevolezza che il tempo da dedicare alla musica inizia a scarseggiare.
Il film risulta essere pertanto un prodotto commerciale d’intrattenimento, più incentrato sul lato estetico che contenutistico, pensato a tavolino per non scontentare nessuno: né i fan dei Queen, né chi non sa nulla della loro storia (teenager su tutti). Una storia però così unica, ricca ed “epica” come quella di Mercury e compagni avrebbe meritato di essere gestita da mani migliori, per realizzare una pellicola più memorabile.
Il messaggio che esprime in maniera forzata il film è quello che i Queen siano stati prima di tutto una famiglia e un porto sicuro per il fragile e tormentato Freddie Mercury, immigrato in cerca di un’identità. Un taglio troppo scontato e banale per una pellicola così attesa. Davvero non si poteva mirare più in alto, parlando di questo straordinario personaggio che, nel bene e nel male, come il dio Mercurio, riuscì a connettere il cielo e la terra tramite la musica, la sua straordinaria potenza vocale e visione artistica?