E’ lo Shabbat, il giorno del riposo. Non siamo abituati alle festività settimanali che slittano a partire dal venerdì, islamico, e poi al sabato, lo shabbat ebraico, e alla domenica cristiana. Vuol dire che Dio parlava in una lingua tutta da interpretare. Neppure un sogno ha turbato il nostro riposo notturno. Non la serenità del principe di Condé la notte avanti la battaglia di Rocroi, ma l’affaticamento, la soddisfazione della prima giornata di viaggio e l’aver predisposto il percorso successivo: verso il deserto del Negev, la depressione del Mar Morto e i resti della città di Masada, favoleggiata e ammirata per la sua dura e ultima resistenza contro l’invasore romano. Non prima di fare una passeggiata e una buona colazione sulla spiaggia di Tel Aviv. Il lungomare, su cui sorgono i nuovi palazzi della capitale, è provvisto di un ampio marciapiede, affiancato da un pista ciclabile per tutta la sua lunghezza, dal porto della città alla vicina Giaffa: 5/6 km percorsi in tutte le direzioni da giovani, meno giovani, scavezzacollo che camminano, saltano, corrono, vanno in bici, con le tute, sportivissimi o semplicemente vestiti alla leggera che si affannano, avanti e indietro, su questa larga strada pedonale.
Più in là l’ampia spiaggiona su cui si affacciano i bar che hanno già di buon mattino predisposto sedie e tavolini su cui soffermarsi per gustare il caffè e mangiare una fetta di torta di mele, traguardando l’occidente. Non per nostalgia dell’Italia, raggiungibile su una trireme romana con qualche settimana di viaggio, ma perdendosi nei pensieri… Tutto quell’azzurro del cielo che si tuffa nel blu del mare ci servirà per contrastare i colori cupi, scuri, rosso marrone, uniformi, privi di vegetazione dei deserti del Negev, che cominciano dopo la città di Be’er Sheva, a sud di Tel Aviv, un centinaio di km, lungo la strada che conduce all’estrema propaggine del Negev, fino a Eilat, altri 230 km circa, assolati, scendendo nella depressione del Mar Moro, a meno 440 mt circa, e salendo fino al livello del mare, il vertice del triangolo, accanto alla mitica Aqaba, ora in Giordania, che il genio e la temerarietà di Lawrence d’Arabia, interpretato magnificamente in un film del 1962 dal mitico Peter O’Toole, progettò di attaccare non via mare, imprendibile per via dei grandi cannoni piazzati sulla muraglia, ma via terra dal deserto, inconcepibile, dopo aver sedotto e convinto le tribù arabe nomadiche, aduse alle lente e pazienti vie carovaniere.
Fino a Be’er Sheva il paesaggio è tipico della macchia mediterranea, arbusti, olivi e cipressi. Lungo la strada si nota l’opera dell’uomo nella coltivazione di frutteti e vigneti, molto diffusi. I coloni si organizzano nelle strutture dei kibbutz, comunità che stringono un patto di convivenza produttiva e di socializzazione, forme arcaiche dei villaggi biblici e dei kolchoz comunisti, attivi in Unione sovietica, delle cooperative agricole nelle quali i contadini lavoravano collettivamente la terra, condividendo anche strumenti e macchinari. Il kibbutz diventa anche museo, parco nazionale, che conserva le memorie della comunità che lo fonda con testimonianze e oggetti accumulati nel corso delle esistenze nei luoghi di provenienza. Avremmo voluto approfondire direttamente questa esperienza ma il viaggio è ancora lungo e ci preme raggiungere Masada e il Mar Morto.
Deviamo verso ovest e man mano che ci inoltriamo il paesaggio cambia aspetto. Ora è più brullo, quasi del tutto incolto. Le rocce sono slavate, prive di terra e non consentono coltivazioni o piante di nessun genere. Tuttavia incontriamo una serie di paesoni che attorno alle poche casette originali si riempiono di edifici e palazzi numerosi, alti e quasi uguali, non oasi ma spazi in cui ospitare i nuovi venuti da ogni parte del mondo. Agglomerati urbani che ci inquietano perché supponiamo che la vita sociale sia inesistente fra gente catapultata lì da chissà dove. Questa deve essere la nuova politica dello Stato d’Israele: riempire gli spazi più impensabili di nuovi cittadini.
Man mano la strada scende, vediamo i segnali: -100, – 200… Intanto comincia a vedersi dall’alto la depressione del Mar Morto, ovunque rocce erose e dal colore scuro, rosso marrone. Appena la vista svetta sul bassopiano ci fermiamo. Restiamo inebetiti, colpiti dalla varietà della natura, da questa solitudine dell’uomo fra gli elementi… Uno, due falchetti che roteano sono l’unica presenza vivente oltre a noi. Inquietante e straordinario spettacolo naturale.
Scendiamo continuamente fino al livello del Mar Morto, una distesa salina che si sta ritirando irreparabilmente. Dal basso si notano i contrafforti naturali, degli speroni, che si innalzano minacciosi e inarrivabili. Su uno di questi, una spianata, un altopiano a 400 mt di altezza i resti della città di Masada, voluta da Erode il Grande ed estrema roccaforte libera dal dominio romano. Siamo incerti se arrampicarci come le capre o utilizzare la teleferica. E’ già pomeriggio inoltrato, propendiamo per questa. Si sale, man mano la vista spazia dalle pendici fino al Mare e oltre, sui rilievi che separano Israele dalla Giordania. Di là c’è Petra, famosa e monumentale città carovaniera collegata con il Mar Rosso e, all’interno, con Dura Europos e Palmira, prestigiose città che accoglievano i mercanti del deserto recanti con sé ogni tipo di spezie. Dall’alto si intravedono anche i resti degli accampamenti romani della X legione, condotta dal governatore Flavio Silva. I legionari avevano teso un cordone umano per impedire vie di fuga e tentativi di rifornimento. Gli assedianti resistettero a lungo per via delle abbondanti riserve di acqua e per la quantità di viveri che avevano accumulato negli ampi magazzini. Entriamo dalla Porta Orientale. Un vasto piano si estende davanti a noi, occupato in parte dalle rovine dei palazzi reali, dalle strutture religiose e dallo stabilimento termale. Una grande città, scelta dagli iloti, per mantenere libero l’ultimo lembo di territorio nazionale. Tutta evidente, dalla osservazione immaginifica, la vita in città, laboriosa e audace. Sotto i romani che predisponevano i mezzi di attacco da spingere fin sotto le mura, le macchine da guerra, facendole scorrere su una rampa appositamente costruita. Le mura furono sbrecciate, ma la sorpresa dei soldati romani fu sbalorditiva: gli assediati si erano tutti suicidati per non cadere schiavi dell’occupante straniero. Masada è l’estrema ratio, rappresenta lo spirito ribelle, le decisioni che si portano avanti sino alla fine, costi quel che costi. Da qui si capisce molto dello spirito ebraico, perciò è venerata. Lo racconta lo storico locale Flavio Giuseppe nelle ‘Antichità giudaiche’.
Scendiamo con uno spirito diverso, tra il melanconico e l’ammirato. Abbiamo bisogno di cambiare verso al nostro viaggio. Percorriamo la costa del Mar Morto fino a En Gedi, uno stabilimento termale moderno che utilizza i fanghi salubri della costa, al confine con la Cisgiordania amministrata dall’Autorità Palestinese. Qui conosciamo Dova, una scrittrice di Tel Aviv che parla benissimo italiano. Esule dalla Libia, di genitori ebrei italiani, aveva riparato con la famiglia in Israele, dopo la rivoluzione verde di Gheddafi, che aveva espulso gli stranieri e gli italiani per primi. Con lei viaggia una famiglia che Sorin ci rivela in vacanza da Craiova, in Romania: lui bioingegnere, Cristina la moglie, pediatra, e la figlia Maria, studentessa in medicina al terzo anno. Sorin conosce la storia romana e giudaica ed è felice di poterlo esprimere con un interlocutore ferrato nella materia. Decidiamo di andare a fare il bagno nel Mar Morto. Una specie di trenino, trainato da un trattore, ci attende ai margini dell’edificio termale. Ci porta sulla spiaggia. Dova ricorda che 50 anni prima il livello giungeva quasi a lambire il terrapieno di Masada. Ci togliamo gli abiti e ci avviciniamo all’acqua. Uno spesso strato di sale ricopre la superficie, lo si vede a pelo d’acqua. Proviamo a entrare a piedi nudi ma ci sentiamo perforare i piedi dalle asperità. Non abbiamo deciso di fare i fachiri. Troviamo l’espediente di abbassarci al livello dell’acqua e di lasciarci andare. Come per incanto l’acqua salata del mare ci sostiene. Allarghiamo le mani e le braccia, ci sembra di volare o almeno ci sentiamo leggeri leggeri. Qui Cristo incantò i fedeli, camminando sulle acque. Ritorniamo indietro e riprendiamo la strada del ritorno non sullo stesso percorso del mattino, ma lungo la linea di costa e poi rientrando verso Gerusalemme, attraverso una parte dei territori sottoposti all’Autorità Palestinese. Ci avevano detto che non era possibile. Invece al posto di blocco fila tutto liscio come del resto per tutta la durata della vacanza. Non abbiamo mai incontrato situazioni di tensione, segno che è possibile convivere. Anche se di tanto in tanto lanci di katiuscia e rivolte dell’intifada turbano una pace che si regge su un equilibrio precario.
Gerusalemme di sera è diversa. Non pullula più di una folla vociante e spasmodicamente attiva. Dalla Porta di Jaffa ci inoltriamo nel quartiere armeno per consumare la cena alla Taverna, ma è presto ancora. Sono le 19. Optiamo per un giro della città vecchia. Da lì passiamo al quartiere ebraico, molto ordinato, che si snoda lungo il cardo massimo della città antica accanto al quale è stata costruita la grande sinagoga. Arriviamo al Muro del Pianto. Ora è gremito di fedeli ortodossi, tutti in nero. Salmodiano e flettono il petto in avanti più volte nel corso delle preghiere come per chiedere e ricevere il perdono. Una bancarella è cosparsa di erbe spontanee, menta, coriandolo, malva e rosmarino, pronte per comporre dei mazzetti da prelevare con un versetto sacro. Un fedele giunto da Tripoli e trasferitosi nella Città Santa ci offre un mazzettino, facendoci recitare la formula di rito. Ci allontaniamo attraverso il suq verso la Porta di Damasco. Si intravedono ancora gli scarti del mercato nel quale si vende di tutto. Usciamo dalla Porta per andare a cena al Jerusalem Hotel, segnalato per la sua terrazza ricoperta da un glicine secolare che d’estate è un giardino. Servono dei cibi semplici palestinesi, ma molto curati, delle zuppe di funghi, cavolfiore e spinaci e l’immancabile agnello alla brace e kebab. E’ gestito da un palestinese cristiano della Cisgiordania. Ci propone un vino delle cantine del monastero di Betlemme, un buon viatico per concludere la serata in bellezza, molto soddisfatti della varietà dei luoghi visti e dal loro significato storico e spirituale.