Da comune autonomo dal XIII sec. fino al 1844 all’attuale condizione di incuria e di abbandono delle strutture rurali e della chiesetta di San Martino, fondata dai Longobardi, la storia del vecchio nucleo di Carpianello sta scritta nel “Liber Notitiae”, elenco del Bussero.
Nel 1386 il signore di Milano Gian Galeazzo Visconti dona ai figli del suo maestro vari possedimenti, fra cui Carpianello. Questo possedimento è intestato a Gasparolo Brivio già dal 1403, come risulta dall’archivio omonimo della famiglia. Esso è costituito da diverse strutture a corte, i Grancini, i Volpi, la Misericordia e la Casa Nobile, edificata a sinistra della chiesetta e abitata dai Brivio. L’insediamento comprendeva anche una locanda (Sedimen unum in dicta terra in quo fiebato hospitium), citata nell’archivio Brivio in data 1531 e attiva fino a pochi anni fa, alla fine degli anni settanta, laddove si giocava a bocce e si mangiava la raspadüra, sfoglie di grana, e si beveva barbera, il gutturnio piacentino o la bonarda di San Colombano al Lambro e dell’Oltrepò Pavese. Risultavano inoltre numerose attività artigianali: il fabbro, il carpentiere del legno e attività di vendita di generi alimentari. Al tempo del console Antonio Tenella, nel 1722, l’attività agricola era in pieno vigore e si utilizzava il mulino e il torchio, nonché risulta frequentata l’osteria.
Sotto il consolato di Giovanni Andrea Bellina nel 1749 la comunità contava 231 abitanti. Pochi anni dopo il Comune di Carpianello verrà sciolto e aggregato a Zivido. La chiesetta ha mantenuto la sua attività e notorietà nel corso degli anni.
Nel 1570 venne visitata da San Carlo Borromeo, che dispose anche una serie di lavori di restauro. Sembra che la chiesa fosse stata eretta da Giacomo Brivio, il quale per garantirne il funzionamento assegnò un censo perpetuo. Poi il cimitero annesso venne chiuso e si utilizzò quello di San Giuliano. I possedimenti passarono per matrimonio al marchese Recalcati e ritornarono di proprietà della famiglia Brivio nel 1863, acquistati da Giacomo Brivio Sforza. La chiesetta venne ricostruita e ampliata, benedetta ed utilizzata per le funzioni religiose nel 1818 e aggregata a quella di Zivido nel 1936. Ora la chiesa è chiusa, sembra per il dissesto che avrebbe causato il sisma friulano nel 1976.
Il borgo man mano è stato abbandonato, le strutture rurali lasciate a marcire. Alcune sono state interessate dal recupero ma il borgo ha perso la sua identità sociale. Resta solo la via centrale di attraversamento del traffico consistente dei pendolari che al mattino si recano a San Donato e a Milano, rendendo l’abitato insalubre e minacciato dalle polveri e dai gas di scarico degli automezzi. L’osteria è stata convertita in abitazione privata. Il mulino è quasi crollato, la ruota ha smesso di girare da decenni ormai.
Gira voce che presto sarà soppiantato dall’ennesimo centro commerciale. Se così sarà, allora di quel borgo alla porta orientale di San Giuliano verso il fiume Lambro non resteranno più tracce, a meno che il Comune non decida di restaurare il mulino e recuperare le tracce superstiti della civiltà agraria trasformandolo in biblioteca di quartiere o centro sociale, una struttura che insieme alla chiesa aperta al culto riannodi i fili della storia locale di San Giuliano Milanese, minore ma non per questo meno importante.