Quando gli amici di Farecultura mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sui “demoni” indicandomi quelle sculture a forma di mostro, dette in francese gargouilles essendo lì nati nei cantieri della Cattedrali medievali, e con la funzione dello scarico delle acque piovane, quindi in un certo senso protettive, ho pensato ai demoni veri, quelli che funestano ed hanno funestato la vita degli uomini.
E allora trovandomi tra le mani un mio scritto di qualche anno fa, l’ho voluto riproporre perché i demoni, quelli che nel secolo scorso hanno sconvolto il nostro mondo e causato guerre e milioni di vittime, non vanno mai dimenticati, e combattuti .
La vicenda che voglio qui evocare non è fuori tema rispetto alla mia qualità di storico dell’Architettura e dell’Arte e della loro simbologia, ma è appunto simbolica ed emblematica, quando, in un tremendo momento della vita di un Architetto è divenuta occasione e mezzo per costruirsi un altro mondo in cui rifugiarsi, e sopravvivere là, da dove dove milioni di donne uomini e bambini, non son più tornati.
La discesa agli inferi ed il ritorno da essi sono temi che la letteratura e la mitologia hanno descritto come simbolo, appunto, dei momenti più terribili della vita dell’Uomo.
Nel primo libro del De Architettura Vitruvio, quando espone le qualità che formano un Architetto scrive che la filosofia contribuisce a renderlo magnanimo, modesto, condiscendente, equo e fidato, e gli insegna a salvaguardare decorosamente la propria dignità, perché nessuna opera può essere condotta a buon fine senza lealtà e rettitudine.
Se queste premesse etiche sono alla base del mestiere di Architetto, ebbene allora Lodovico Barbiano di Belgiojoso (Milano, 1909 – 2004) uno degli ultimi grandi vecchi della generazione dei maestri, con la sua vita, che ci racconta con modestia in un piccolo libro, che consegna a questo mondo in cui si sente ormai a disagio, dà anche una straordinaria lezione di architettura.
Questa è l’autobiografia di un uomo riservato e discreto, malinconico e lieve, di grande dignità e nobiltà, non tanto quella del lignaggio, che gli è propria, quanto quella, forte, che gli ha permesso di sopravvivere al campo di sterminio, l’esperienza tremenda che gli ha segnato la vita e che rievoca nella parte centrale del libro.
E’ il racconto di una vita dall’infanzia privilegiata, ma formata in un’educazione severa e attenta ai valori più profondi e comunque presto messa al cospetto della guerra, delle privazioni, della fame: “nell’inverno del 1917 durante la prima guerra mondiale, m’era toccato mangiare per la prima volta la carne di gatto”.
Ricordo un episodio avvenuto nella Facoltà di Architettura di Milano, quando noi studenti, mi pare nel 1969, invitammo nelle nostre aule i cosiddetti baraccati, povere famiglie di occupanti abusivi di case, chiamati là a dar testimonianza di una condizione con la quale ritenevamo dovesse misurarsi la formazione di un Architetto.
Questo episodio è fermato in una tenera immagine nella quale si vede il professor Belgiojoso che disegna casette per i bambini dei baraccati.
In quell’immagine c’è, credo, oltre all’umanità, una vera lezione di architettura, non tanto al bambino attento, ma a noi che dovevamo apprendere il mestiere e che in quell’atteggiamento di partecipata comprensione imparammo un po’ ad essere Uomini-Architetti.
E in quegli stessi giorni imparammo ancora qualcosa.
Gli chiedemmo “Professore, ma come è riuscito, Lei, a sopravvivere, a Gusen?”
“Perché ero capace di divertirmi” fu la scioccante, ma precisa risposta, che, leggendo ora, in una notte e d’un fiato il suo libro, capisco anche meglio.
Divertirsi, distrarsi, astrarsi da quello che gli succedeva intorno, saper esercitare anche nel dramma, l’immaginazione (che è poi uno strumento dell’Architetto): “allora immaginavo di isolarmi, facendo crescere intorno a me un muro altissimo, con quattro pareti che racchiudevano un piccolo campo … quattro pareti senza porte, entro le quali ero salvo … un grande prisma d’aria pura, che mi apparteneva .. .fino allo zenit.”
Detto con poche, sintetiche parole (altra lezione per l’Architetto: la sintesi) è il racconto e il “segreto” di come funzionava il sodalizio di BBPR (Lo Studio di Architettura tra i più noti e importanti del secolo scorso, che costruì, tra l’altro, la Torre Velasca di Milano) : ” posso dire che Giangio (Banfi) (deportato a Gusen con l’amico Belgiojoso, dove morì) mi ha insegnato a lavorare, Aurel (Peressutti) a immaginare, Ernesto (Rogers) a pensare … quando lavoravamo in quattro ad un progetto, eravamo come quattro muratori: Giangio predisponeva le fondazioni del muro, Aurel le pietre, io mettevo il cemento per tenerle assieme, mentre Ernesto reggeva il filo a piombo perché il muro venisse su dritto”.
Questo piccolo-grande libro é anche un serrato e profondo esercizio di memoria, e questa è ancora una qualità necessaria all’Architettura.
Nelle pagine conclusive, intrise di tristezza, il nostro vecchio professore ci lascia un’ultima lezione che aveva appreso nel campo di Gusen e che chi esercita con vera dignità l’Architettura può far propria “ognuno si era abituato a vivere di speranza come qui uno vive della propria arte, della propria passione” .
Dario Banaudi
Architetto, Cultore di Storia e SImbologia dell’Arte e dell’Architettura
Foto in evidenza: Lodovico Belgiojoso che disegna casette per i bambini dei baraccati