Sabato 10 giugno, in contemporanea al Teatro Grassi e al Teatro Studio Melato, va in scena Eleusi di Davide Enia, nuova produzione del Piccolo Teatro: un dittico di ventiquattro ore, articolato come azione scenica frontale al Grassi, affidata a tre gruppi di 21 performer, per esplorare i temi della morte e della violenza, e come esperienza immersiva allo Studio, in una successione continua di circa 30 gruppi corali, che si esibiranno in repertori di musica sacra.
L’ingresso è libero fino a esaurimento posti, continuativamente, giorno e notte, dalle 21 di sabato 10 giugno alle 21 di domenica 11 giugno.
Al Teatro Studio Melato si può accedere in qualsiasi momento, al Teatro Grassi le performance cominceranno a ogni inizio di ora e dureranno venti minuti ognuna.
Sul Sagrato dello Strehler e nel Chiostro di via Rovello, una costellazione di appuntamenti, a cura di mare culturale urbano: i riti collettivi per Eleusi, che si concluderanno con una festa finale, domenica sera, a partire dalle 21.
Eleusi – il titolo richiama i misteri celebrati nell’antica Grecia – è un dittico corale che affronta il tema del sacro. Nasce da una riflessione su due luoghi del Piccolo: il primo è la sede di via Rovello, il Teatro Grassi, dentro al quale, tra il ’43 e il ’45, i fascisti torturano e uccisero civili e partigiani; Paolo Grassi e Giorgio Strehler, nel 1947, vollero farne un luogo dove l’umano tornasse a vivere. Il secondo è il Teatro Fossati, oggi Teatro Studio Melato; risalente alla metà dell’Ottocento, ospitò spettacoli dialettali, riviste e operette, fu trasformato in cinema e restò a lungo chiuso; fu riaperto da Strehler nel 1986, come luogo di sperimentazione.
«La trasformazione di entrambi gli spazi in teatro – spiega Enia – fu una precisa opera di risignificazione dell’esistente: stare in un luogo modificandone la destinazione d’uso e la relazione con il tessuto urbano e sociale, ridando valore vivente al verbo abitare. Questi due luoghi, così fortemente simbolici, in Eleusi risultano connessi tra di loro e dialogano: quanto accade in uno si confronta e si completa con ciò che avviene nell’altro. Il pubblico è invitato a muoversi tra i due teatri, senza che ci sia un ordine stabilito, lasciando al caso, al desiderio, all’intuito, la scelta di dove recarsi prima». Al Teatro Grassi, in una performance frontale, si esplorano i temi della morte e della violenza, partendo dall’assunto che l’edificio porta con sé un vissuto violento; al Teatro Studio gli spettatori vivono un’esperienza immersiva, accolti in sala da un’ampia corale che ininterrottamente canterà nell’arco di ventiquattr’ore.
«Eleusi – continua Enia – si configura anche come una riflessione sul dispositivo teatrale, sulla necessità dell’osmosi tra tutte le sue parti, sui linguaggi possibili, sulla scrittura, sulla lettura, sulla urgenza del desiderio, sui ruoli e sul loro ribaltamento. Dura ventiquattr’ore di fila, dal tramonto al tramonto, poi scompare».
A cominciare dalle polis greche e poi giù giù per tutta la modernità e il suo dopo, un legame indissolubile annoda il teatro alla sua città, tanto che la città è il vero etimo di ogni teatro e ne rappresenta l’orizzonte irrinunciabile. Inoltre, come il celebre antropologo Victor Turner ci ha spiegato con la teoria rituale del “dramma sociale”, il teatro è uno spazio in cui una comunità si raccoglie per riflettere su se stessa e sul rapporto con la dimensione del sacro.
Teatro, città, sfera del sacro, rito, communitas: sono proprio questi i pilastri di Eleusi, dittico corale con cui la vitale ricerca artistica di Davide Enia, percorsa da urgenze e dilemmi attuali e insieme antichi, sperimenta nuove strade. Nell’arco di un’intera giornata, per ventiquattr’ore di fila, il Teatro Grassi e il Teatro Studio Melato – sedi del Piccolo che in passato hanno vissuto profonde trasformazioni, pur se in modo diverso, da un lato in merito alla destinazione d’uso e dall’altro in relazione alla costruzione di una specifica dialettica scenica con il pubblico – ospiteranno rispettivamente azioni di natura performativa e un’ampia corale (grazie, in questo secondo caso, alla collaborazione con Cori Lombardia). In uno spazio-tempo prensile animato anche da momenti festivi di aggregazione al di fuori degli edifici teatrali, prende vita un’esperienza che consegna i partecipanti alla pura contingenza dell’accadere, il cui senso coincide con il suo farsi, col suo esistere, col suo “consumarsi” e svanire. E per questa esperienza del limite della conoscenza di sé non occorre cercare lontano. Tutt’altro. Basta ri-volgersi a quanto c’è di prossimo, di più vicino: al nostro corpo e ai corpi “accanto” e “di fronte”, custodi di ogni umana comunità.
Claudio Longhi
Intervista con Davide Enia a cura dell’Ufficio Edizioni del Piccolo Teatro
Davide Enia, perché hai voluto fare questo spettacolo e perché lo hai chiamato Eleusi?
L’idea nasce da un duplice impulso. Il primo risale a quando venni per la prima volta al Piccolo, con L’abisso. Ero in scena al Teatro Grassi e venni a sapere che, esattamente tra quelle mura, la Legione Ettore Muti aveva torturato civili e partigiani. Poiché, quando recito, la parte di me che “si accende” entra in relazione con tutti i fantasmi che popolano la drammaturgia – chi non c’è più, chi è lontano geograficamente… – ecco, questa mia apertura percepiva che le mura continuavano a vibrare di un passato risalente alle origini del teatro: c’erano urla rimaste prigioniere là dentro. Successivamente, mentre mi trovavo a L’Aquila e camminavo nella parte ancora distrutta della città, mi resi conto, osservando una porta spezzata, che il terremoto non traumatizza soltanto persone, animali e piante, ma anche le cose, e che il terrore del terremoto, la paura, l’ansia che esso genera s’insinuano nel sistema degli oggetti. Questo mi ha fatto capire che, probabilmente, il carico di violenza che si era esercitato in quello che poi è diventato il Piccolo ne aveva permeato le mura e che l’opera di risignificazione, compiuta da Grassi e Strehler trasformandolo in teatro, era stata un’azione piena di senso della prospettiva: il grande altare che è il palcoscenico – dove si danno la gloria, la grazia, l’apparizione del mistero, del dubbio, di una risposta che filtra in controluce – non ha dimenticato che lì fu sparso il sangue di una delle grandi ferite dell’umanità. Il secondo impulso è figlio dell’esperienza del contingentamento del pubblico durante la pandemia. In quelle settimane, andai in scena al Teatro Studio, con il pubblico distanziato e ne soffrii moltissimo, perché il dispositivo teatrale mi apparve rotto. Il teatro, a meno che non vi siano scelte registiche a monte, non è fatto perché le persone siano “frantumate”, ma, all’opposto, perché il contatto fisico trasformi il respiro del singolo in un afflato comune, e restituisca l’idea di comunità che il grande teatro riesce a produrre, ovvero l’incontro in un altrove, attraverso la mediazione artistica, per cercare risposte alle ferite del presente e avviare un processo di “cicatrizzazione”. Muovendo da questi due impulsi, mi sono chiesto che senso ancora avesse, per me, fare teatro, e mi sono voluto impegnare in un’operazione fortemente comunitaria, che coinvolgesse un gran numero di persone – i cori, al Teatro Studio, vengono da tutta la Lombardia, mentre i performer, al Grassi, sono ventuno – e con loro l’intera struttura: un’operazione del genere può esistere solo se tutto il teatro la condivide, consapevole di stare facendo qualcosa di smisurato, a partire da noi, che canteremo alle quattro del mattino, per una sola persona o per nessuno, e passeremo il testimone di responsabilità al pubblico, al quale domandiamo di alimentare con noi il fuoco che teniamo acceso per ventiquattr’ore. Eleusi è un evento che appare, arde per un giorno e scompare per sempre, in una direzione fortemente antitetica rispetto all’abitudine alla riproducibilità: non filmeremo, non resterà alcuna testimonianza, perché dobbiamo riabituarci a vivere lo spettacolo dal vivo con il nostro corpo e la nostra carne, senza la mediazione della tecnologia e riuscendo, finalmente, ad abbandonarci all’esperienza dell’istante, per viverla con tutti i sensi. Si chiama Eleusi, perché, nell’antica Grecia, quella era la città dove ci si recava in pellegrinaggio rituale, e anche qui ci si sposta tra un teatro e l’altro per accostarsi a un “mistero”.
Che cos’è, per te, il sacro e in che modo, secondo te, esiste – se esiste – nella realtà contemporanea?
La grande ferita insanabile del contemporaneo è la scomparsa del sacro dall’orizzonte degli eventi. Intendo per sparizione del sacro la mancata relazione con quella oltranza che, prima o poi, ognuno di noi nella vita percepisce – e può scegliere se accettare o meno – ma che sempre è lo spiraglio dal quale filtra la luce.
Veniamo da un secolo che ha sacralizzato al massimo la secolarizzazione: avevamo fede in un’idea di progresso e in un’assoluta e sacrosanta necessità di conquistare diritti civili e di combattere battaglie per allargarli; ma il punto è, per dirla con Simone Weil, che libertà e democrazia, pur parole straordinarie, non risolvono i problemi dell’essere umano. L’albero, invece, che trae dalla luce che arriva dal cielo la forza per fare sprofondare le radici, in qualche modo è radicato in cielo. Detto questo, il sacro è un concetto spaventoso: in quanto vox media, indica ciò che tende sia al bene sia al male. Potremmo dire, brutalizzando un’iconografia che abbiamo in mente, che può essere sacra l’apparizione di un angelo, di un’aurora boreale, o di un germoglio, tanto quanto lo è la terribile carica di violenza esercitata al Grassi. Stiamo tra queste due tremende oscillazioni, in cui ritornano, in maniera consapevole o inconscia, le domande assolute dell’esistenza, che non trovano risposta nell’ancorarsi alla pura materialità. A cominciare dal fatto che, per quanto lo si possa negare, il male esiste al pari del bene, e l’unica grande conquista dell’umanità è stata la mediazione artistica, attraverso la quale è possibile nominare verità altrimenti innominabili, così da riuscire a creare una prospettiva per il superamento delle ferite e delle fratture del contemporaneo. Tutto questo diventa, dal mio punto di vista autoriale, una riflessione sul linguaggio, sul teatro, sulla sua necessità e sul suo stare sul limite del sacro, evento che si consuma dal vivo, in un istante irripetibile, che è diverso se cambia anche un solo spettatore, che ne altera il respiro, la composizione, la temperatura. Significa venire a patti con la gloriosa fragilità della persona e capire che, nel migliore dei casi, siamo tutti strumenti. Bisognerebbe anche prendere coscienza che, parallelamente alla scomparsa del sacro, è avvenuta una mutazione antropologica. Calasso parlava di homo saecularis, “secolarizzato”, io parlerei di homo oeconomicus; oggi, l’essere umano ha dignità in base alla quantità di consumi che può generare, tanto che assistiamo alla creazione di nuove definizioni, nate da un uso criminale del vocabolario: migrante economico… Che significa? Come se non fossero sempre esistite le migrazioni e come se la storia dell’umanità non fosse essa stessa figlia di epocali spostamenti che hanno portato all’evoluzione, alla creazione della scrittura, allo sviluppo delle scienze e della tecnologia… Il vocabolario è strumentalizzato secondo la logica del supermercato, che ha trionfato negli ultimi settant’anni. La domanda “che tipo di teatro fai?” nuovamente rientra nella logica del bene di consumo, perché si vuole trasformare anche il teatro in prodotto da incasellare. Il sacro ci insegna la ritualità: in Eleusi, al Teatro Grassi, abbiamo un’azione che dura venti minuti ed è reiterata allo scoccare di ogni ora, per ventiquattr’ore, mentre allo Studio, nello stesso arco temporale, si ripete ogni quarto d’ora un testo che entra nel flusso del canto. Il primo documento di scrittura dell’umanità sono i Veda, antichissima raccolta di testi in sanscrito dove sono registrate le pratiche rituali del sacrificio. Pratiche che si ripetevano, ogni volta identiche. Ripetere, ripetere, ripetere – è ciò che facciamo in scena – è la pratica per svuotare se stessi e lasciar entrare il testo dentro di sé. In teatro, la ripetizione dell’azione è parte fondamentale della tecnica ed è finalizzata a riattivare quella scintilla, lo spiraglio dal quale filtra la luce di cui parlavo inizialmente. Questa è la “vocazione”, compiere un’azione perché non si può farne a meno, perché se ne è capaci, la si possiede: il lavoro è capire che il vero obiettivo è svuotarsi, ribaltando il concetto dell’occidente capitalista dell’accumulo quale unica condizione della felicità. Il senso dello stare su un palcoscenico è fare il vuoto per lasciare entrare il testo, il personaggio, l’esperienza, i morti che ci hanno insegnato qualcosa, i morti che verranno, riuscendo a curvare il tempo, o meglio riuscendo a entrare nella logica della curvatura del tempo, nello strano cerchio dell’esistenza e diventarne un punto. Questo è il sacro.
Che tipo di reazione ti aspetti, o auspicheresti, da parte del pubblico?
Vorrei che tutte le persone che incontrano il mio lavoro – romanzo o teatro che sia – fossero attive e reagissero a quel che viene raccontato ed eseguito in scena avviando una sorta di riflessione introiettata.
Che si chiedessero il perché di un’immagine, di una scena, di determinate parole e domande, di alcuni canti e testi, e provassero a darsi risposte che non necessariamente devono essere coincidenti con le mie. Che si chiedano, ad esempio, il perché della necessità di camminare da uno spazio all’altro, che, dal mio punto di vista significa non solo metabolizzare, nell’andare incontro a quello che si sta per vedere, l’esperienza di quello che si è visto, ma rendersi conto di trovarsi a camminare tra due spazi di una città che probabilmente abbiamo smesso di guardare. E se abbiamo smesso di percepire il legame tra due teatri che distano poche centinaia di metri, probabilmente abbiamo smesso di osservare il sistema degli oggetti che abbiamo in casa, le persone che abbiamo intorno, e quindi occorre riconciliarsi con la dimensione dello sguardo, che è una delle più inquinate del contemporaneo. Auspico che ci sia uno sguardo curioso da parte delle persone, fermo restando che, chiamandosi Eleusi, questo lavoro richiede di abbandonarsi al mistero di ventiquattr’ore di un’esperienza altra. Perché nessuno spettatore vedrà lo stesso spettacolo, dal momento che i cori al Teatro Studio si susseguiranno sempre diversi, come differente sarà la fruizione se si è vista la performance al Grassi prima o dopo essere stati allo Studio. Questa irripetibilità è uno degli aspetti centrali del lavoro che stiamo facendo.
Che cosa significa per te essere artista associato del Piccolo?
Sono onorato del fatto di trovarmi qui e di avere un’interlocuzione di livello internazionale. Significa avere un tavolo di discussione, soprattutto per una persona palesemente irrequieta dal punto di vista artistico come me, per cercare di calibrare sempre più quello che ritengo essere urgente rispetto al lavoro che faccio. Non essendo un regista nel senso puro del termine, perché non metto mai in scena testi di altri, e trovandomi sempre, per come intendo questo lavoro, in un punto di una ricerca che è iniziata quando sono nato, essere in dialogo con una struttura mi aiuta a realizzare delle intuizioni, grazie al costante confronto con una quantità di professionalità che intervengono nel lavoro. Non fa altro che confermare ciò che ho sempre pensato, che ogni opera d’arte è sempre un lavoro collettivo, persino un quadro. Nel teatro è più esplicito, perché fisicamente esiste una persona che monta un faro, qualcuno che crea le luci, la maschera che guida il pubblico in sala… e, per quanto si abbia la responsabilità dello spettacolo, è salutare sapere di essere parte di un organismo.
*foto di scena Masiar Pasquali
Fonte: Ufficio stampa Piccolo Teatro Milano