Icone della storia del jazz come Archie Shepp, Abdullah Ibrahim, Dave Holland, Ralph Towner, Gary Bartz e Dayramir Gonzalez ma anche i più interessanti esponenti della nuova scena come Kokoroko, Moonlight Benjamin, Donny McCaslin, Maisha e Cory Wong, in grado di far scoprire il jazz alle generazioni più giovani. Le grandi protagoniste femminili come Dianne Reeves e Carmen Souza al fianco dei talenti più recenti come Linda May Han Oh, Elina Duni e Federica Michisanti. Le esplorazioni mediterranee e asiatiche dei Radiodervish, Tigran Hamasyan e dell’ensemble Mare Nostrum con Paolo Fresu, Richard Galliano e Jan Lundgren da un lato e le contaminazioni linguistiche di Luigi Cinque con l’Hypertext O’rchestra dall’altro. Il batterista anti-Trump Antonio Sanchez e il suo jazz ai tempi del sovranismo e la nostalgia migrante raccontata in musica dalla Big Fat Orchestra. Il tributo a Leonard Bernstein di Gabriele Coen e il pantheon jazz evocato da Roberto Ottaviano.
Sono i protagonisti della 43° edizione del Roma Jazz Festival che dal 1° novembre al 1° dicembre 2019 animerà la Capitale con 23 concerti fra l’Auditorium Parco della Musica, la Casa del Jazz, il Monk e l’Alcazar. Il Roma Jazz Festival 2019 è realizzato con il contributo del MIBAC – Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
No borders. Migration and integration è l’attualissimo titolo di questa edizione. Un programma pensato per indagare come oggi la musica jazz, nelle sue ampie articolazioni geografiche e stilistiche, rifletta una irresistibile spinta a combattere vecchie e nuove forme di esclusione. Nato come risultato/reazione/sintesi di fenomeni drammatici, come la tratta degli schiavi africani nelle Americhe e le conseguenti discriminazioni razziali, il jazz è un linguaggio universale, uno straordinario serbatoio di risposte creative alle domande e alle tensioni continuamente suscitate da tematiche come confini, migrazioni e integrazione, la cui sempre crescente presenza nel dibattito pubblico ci obbliga a riflettere e a prendere posizione. Fra l’affermazione di una nuova generazione di musiciste che rompono le discriminazioni di genere, le sperimentazioni di inedite ibridazioni dei linguaggi e la riflessione sul dramma delle nuove migrazioni, il messaggio del Roma Jazz Festival 2019 è che possiamo comprendere il concetto di confine solo se accettiamo anche la necessità del suo attraversamento.
In linea con il tema, e a completare il programma del festival, l’artista Alfredo Pirri realizzerà un’installazione visitabile dal 1° al 30 novembre che, oltrettutto, ha ispirato il visual del RJF2019. Una struttura dal telaio in ferro e pannelli colorati di plexiglass che dividerà in due la Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, epifania del concetto di muro e di confine ma dal senso ribaltato: l’opera di Pirri sarà una barriera luminosa e trasparente, continuamente attraversabile dal pubblico, trasformando il concetto di muro nell’evocazione poetica di un rito di passaggio. Durante il corso del festival, l’installazione sarà elemento attivo di una serie di eventi musicali che la trasformeranno in una vera e propria cassa di risonanza.
L’opera rientra nel ciclo Compagni e Angeli (parole tratte da un brano dei Radiodervish – gruppo che aprirà il festival – ispirato a una lettera di Antonio Gramsci) che il celebre artista cosentino ha realizzato per Roma, Turi (Bari) e Tirana in Albania nell’ambito di un programma di cooperazione trilaterale fra Italia, Albania e Montenegro
Il tema dell’edizione, No borders. Migration and integration, esplode subito nei due concerti che il 1° novembre aprono il Roma Jazz Festival 2019, i Radiodervish alle 21 nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica e gli attesissimi Kokoroko alle 21.30 al Monk Club.
Artisticamente nati nella seconda metà degli anni ‘90 in una terra di confine come la Puglia, allora teatro delle prime ondate di migrazioni verso l’Italia, i Radiodervish sono la band che più di ogni altra ha disegnato l’orizzonte di un’Italia come ponte fra l’Europa e il Mediterraneo. Prodotti al loro esordio da Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, nell’arco di una carriera di oltre 20 anni hanno pubblicato 10 album e collaborato con musicisti come Franco Battiato, Jovanotti, Stewart Copeland, Caparezza, Noa e Nicola Piovani – per citarne soltanto alcuni – portando il loro inconfondibile cantautorato mediterraneo nei più prestigiosi palchi internazionali di città come Parigi, Beirut, Bruxelles, Gerusalemme, Valencia, Atene, Tel Aviv, Betlemme, Il Cairo e Amman.
Da sempre cantano di uomini e donne appartenenti a spazi, culture e tempi differenti, alla ricerca di varchi fra Oriente e Occidente. Non fa eccezione il loro penultimo album, Il Sangre e il Sal, modo di dire in lingua Sabir (l’antica lingua spontanea dei porti del Mediterraneo) per indicare una condizione che è contemporaneamente l’appartenenza, il sangue che ci lega ad una famiglia, e lo sradicamento, il sale che il viaggio lascia addosso. Canzoni che raccontano un Mediterraneo di persone e non di nazioni, attraverso echi di Omero, Pasolini, Panagoulis, Baudelaire. Al Roma Jazz Festival, insieme al quartetto d’archi OLES, presentano Classica, il loro tredicesimo album uscito l’11 ottobre 2019 e realizzato insieme all’Orchestra Sinfonica di Lecce che ha reinterpretato alcuni dei brani migliori del loro repertorio.
Giovani, con un solo album pubblicato ma già alfieri di quella scena del nuovo jazz britannico che ha riportato questa musica fuori dai teatri, a contatto con la realtà palpitante della Londra multietnica, i Kokoroko hanno come indiscusso nume tutelare Fela Kuti, l’inventore dell’afrobeat, arrivato a Londra negli anni ’60 dalla Nigeria per fare il medico e diventato in poco tempo musicista leggendario oltre che icona politica africanista. Collettivo di otto elementi inglesi di origine africana guidati dalla trombettista Sheila Maurice-Grey, i Kokoroko mescolano le loro radici nigeriane e West Africa con l’urban sound londinese, ispirati da artisti come Tony Allen ed Ebo Taylor e coccolati da guru come Gilles Peterson. La loro già consolidata fama internazionale è dovuta ai loro live in cui alla imponente presenza scenica si unisce una esplosiva miscela di soul e spiritual che sono cibo per l’anima e dinamite per i corpi danzanti.
Sabato 2 novembre alle 21 in Sala Sinopoli dell’Auditorium PdM sarà la volta invece della statunitense Dianne Reeves, considerata una delle più importanti interpreti femminili di jazz del nostro tempo al pari di Dee Dee Bridgewater, Cassandra Wilson e Diana Krall. Artista pluripremiata con ben cinque Grammy Awards, la Reeves, classe 1956, è cresciuta ispirandosi al magistero di Sarah Vaughan ma col tempo ha ampliato il tradizionale vocabolario jazz innestandovi, con rara eleganza, le varie sfumature della black music e del pop, come dimostra l’album Beautiful Life in cui ha interpretato brani di Bob Marley, Fletwood Mac e Ani Di Franco. Fra i momenti in cui ha letteralmente incantato il pubblico mondiale, la straordinaria, per controllo e potenza emozionale, performance nel film diretto da George Clooney Good Night and Good Luck.
Dalla innata classe di un’elegante signora afroamericana si passa alla esplosiva energia civile di un batterista messicano, grazie al quale il tema del Roma Jazz Festival 2019 ritorna in modo esplicito e diretto, aprendo una finestra sul jazz al tempo del sovranismo. L’appuntamento è lunedì 4 novembre alle ore 21, sempre all’Auditorium PdM ma questa volta in Sala Petrassi con Antonio Sanchez & Migration. Sanchez ha dedicato il suo ultimo lavoro discografico Lines in the Sands al tema dell’immigrazione come risposta alle politiche del Presidente Donald Trump e al suo famigerato muro anti-mmigrati. Alla guida del quintetto Migration, il musicista messicano ha composto un lavoro dal netto contenuto politico: tre brani incastonati tra due suite di più di venti minuti ciascuna dove malinconia, forza e speranza sono perfettamente bilanciati. Punto di riferimento per i batteristi di tutto il mondo, componente stabile del gruppo di Pat Metheny, Sanchez è stato celebrato nel 2015 per la strepitosa colonna sonora del film premio Oscar Birdman. Con Pat Metheny suona regolarmente anche la contrabbassista malese Linda May Han Oh, esponente di spicco di quella nuova generazione di musiciste che si sta imponendo in tutto il mondo, cancellando in modo irreversibile decenni di esclusione e pregiudizi. Martedì 5 novembre, nella Sala Petrassi dell’Auditorium PdM, appuntamento quindi con Linda May Han Oh Quartet: sarà l’occasione per ascoltare dal vivo le composizioni del suo ultimo disco Aventurine, lavoro che conferma ancora una volta l’ampiezza di visione di un’artista capace di tenere insieme classicismo e avanguardia. Special guest della serata l’ensemble tutto al femminile Quartetto Artemisia.
Fonte: GDG Press