Il rapporto fra gli intellettuali e il Potere in un’epoca segnata dalla propaganda. La complessità dell’animo umano contro ogni tentativo di semplificazione. Uno sguardo su un Passato che, per certi versi, somiglia al nostro Presente. In scena a Milano, Modena, Palermo e Napoli.
Sono soltanto tre dei nodi affrontati in Lettere a Bernini, la nuova creazione del drammaturgo e regista Marco Martinelli, fondatore delle Albe insieme a Ermanna Montanari, con cui condivide l’ideazione di questo spettacolo che è in scena, per la prima volta a Milano, dal 4 al 9 febbraio al Teatro Elfo Puccini.
La nuova opera di Marco Martinelli – che ha debuttato lo scorso dicembre al Teatro Rasi di Ravenna e dopo la date milanesi sarà al Teatro delle Passioni di Modena (4-9 marzo), al Teatro Biondo di Palermo (2-6 aprile) e a Gallerie d’Italia, Napoli (10-16 aprile) – è una coproduzione Albe/Ravenna Teatro, Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale mentre la drammaturgia è pubblicata da Einaudi nella collana Collezioni di Teatro ed è disponibile in tutte le librerie.
Lettere a Bernini si svolge interamente in un giorno d’estate dell’anno 1667, esattamente il 3 agosto. In scena, nel suo studio di scultore, pittore e architetto, il vecchio Gian Lorenzo Bernini interpretato dall’unico attore sul palco, Marco Cacciola, che recita in italiano e in napoletano. La massima autorità artistica della Roma barocca è infuriata con Francesca Bresciani, intagliatrice di lapislazzuli che ha lavorato per lui nella Fabbrica di San Pietro e che ora lo accusa, di fronte ai cardinali, di non pagarle il giusto prezzo per il suo lavoro.
Da questa vicenda, storicamente documentata, prende il via Lettere a Bernini: sono le lettere che la Bresciani spediva ai potenti committenti del Bernini, per denunciare il torto subito e rivendicare i propri diritti, rivelandosi figura di emancipazione femminile ante litteram.
Nell’infuriarsi con la donna, – in questo atelier che era un vero e proprio teatro, in cui, mentre scolpiva e creava, parlava con i cardinali, impartiva degli ordini ai suoi artigiani e spesso, appunto, si infuriava – Bernini evoca l’ombra dell’odiato rivale, Francesco Borromini. Ed è proprio in Borromini che risiede la genesi di questo lavoro di Martinelli, risalente a una visita, compiuta insieme ad Ermanna Montanari, alla Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, edificata a Roma nel XVII secolo ad opera del genio ticinese: “L’amore per Bernini nasce paradossalmente dal suo grande rivale, Francesco Borromini” afferma infatti Martinelli.
“Anni fa Ermanna e io entrammo in San Carlino, il capolavoro di Borromini, e rimanemmo incantati, travolti, tramortiti. Da lì ho cominciato a leggere di tutto; e più entravo nella vita di Borromini, più si faceva avanti il rivale, Gianlorenzo. All’inizio tendevo ad allontanarlo, mi dava fastidio questa figura così prepotente, così protetta dai papi, il dittatore artistico della Roma del suo tempo. Non era solo un grande artista, era un imprenditore, decideva lui chi lavorava e chi no. Poi a un certo punto, grazie a Ermanna, mi sono fatto rapire anche io dalla grandezza di Bernini e il primo pensiero è stato quello di creare un dialogo fra i due”, continua l’autore e regista.
Ma come in un film western, “non c’era spazio per entrambi sul palcoscenico, per cui Bernini alla fine s’è preso la scena, perché oltre a essere pittore, scultore, architetto era anche uomo di teatro” conclude Martinelli, spiegando il passaggio da un’iniziale idea di dialogo alla forma finale di un monologo densamente popolato da figure fantasmatiche.
Quando, poi, giungerà la notizia inaspettata del suicidio di Borromini, la furia di Bernini cederà il passo alla pietas: per la tremenda depressione che aveva colpito il rivale in quegli ultimi anni e, al contempo, per l’incessante guerra che gli artisti si fanno, tutti contro tutti, per il loro ‘sgomitare sotto il cielo’, come direbbe Thomas Bernhard. Travolto da quella pietas, Bernini giungerà a riconsiderare l’opera del collega, riconoscendone l’alto valore. Chi può comprendere fino in fondo la grandezza di un artista? Il suo rivale. Il suo avversario. Il suo simile. “Bernini era una figura piena di contraddizioni, capace di violenze e di prepotenze da una parte e capace di momenti, invece, di grande umanità, altrimenti non ci avrebbe regalato tutti i suoi capolavori” sottolinea Martinelli a proposito di questa indagine sulla complessità dell’animo umano, ancor più significativa in un’epoca, la nostra, dominata da manicheismi, (anti)ideologie semplificatorie e gogne mediatiche.
Così, fra una citazione di un Papa e una di un Cardinale, il Bernini incarnato da Marco Cacciola parla di Hitler e di followers, catapultando il pubblico immediatamente dal Seicento all’oggi.
Attraverso una drammaturgia in cui la voce monologante dell’attore e quella di Bernini si rincorrono e sovrappongono senza soluzione di continuità, a generare sulla scena, come scolpendo nel vuoto, presenze, figure e ricordi, l’opera di Martinelli ci mostra dunque un Seicento che parla di noi, sospeso tra il secolo della Scienza nuova e l’attuale imbarbarimento, sempre più incombente.
*Foto in evidenza: Lettere a Bernini – ENRICO FEDRIGOLI
Fonte: Ufficio stampa GDG press