Strategie per una consapevolezza attiva di fronte ad un abuso sul luogo di lavoro.
“Non ce la faccio più, dottoressa. Ogni giorno entro in quell’ufficio e sento che devo indossare un’armatura di ferro. Ieri, ad esempio, ero alla mia scrivania e lui – il capo – si è avvicinato, si è chinato per consegnarmi un plico, appoggiandosi così vicino che sentivo il suo fiato sul collo. Ha fatto una battuta sul mio vestito, dicendo che dovevo averlo scelto ‘per fargli piacere’. Un tubino bordeaux che io trovo elegante, sì certo è aderente, è un tubino d’altronde. Io sono rimasta lì, paralizzata, bloccata, fissa come una statua, con un sorriso forzato, senza sapere cosa dire. Da una parte mi sentivo umiliata, dall’altra in colpa per non aver reagito. Ma come potevo? Se rispondo rischio il posto di lavoro… e alla fine mi ritrovo a giustificarlo, come se fossi io quella sbagliata, con quel vestito troppo aderente, forse.”
Sono una psicologa e lei è Aryel (nome di fantasia). Ha 25 anni ed è appena entrata nel mondo del lavoro. Io ne ho 55, il che comporta che per tutta la vita ho avuto a che fare con uomini nati negli anni sessanta e settanta; ho assistito alla proliferazione di stereotipi di genere; ho ascoltato generalizzazioni dei maschi sulle femmine (e viceversa); ho vissuto e schivato gesti sessisti; ho tentato di mettere in ordine questioni che ordinate non lo sono. Rimanere in ascolto senza proiettare il mio vissuto su Aryel rimane il compito a cui la clinica mi chiama, ma avere una visione chiara della questione mi permette di accompagnarla con lucidità. Il racconto di Aryel ci trascina in profondità, in un abisso di domande che ci costringono a guardare negli occhi ciò che spesso evitiamo di nominare:
1. Che sapore ha l’abuso psicologico?
2. Quali sono i contorni dell’abuso sessuale?
3. Come reagire alla sensazione di pericolo che si avverte sulla pelle?
4. Cosa fare di fronte a ciò che vibra come una molestia?
5. Quali sono le risorse, le conoscenze, le competenze che ci permettono di comprendere?
La storia di Aryel puzza di patriarcato, quell’invisibile rete che ci ha addestrate fin da piccole a cercare l’approvazione maschile come misura del nostro valore. È un sistema subdolo, che ci ha insegnato a vedere nelle avances un presunto riconoscimento, come se sguardi insistenti e parole che sfiorano il confine del lecito siano complimenti da custodire. Ma la verità è un’altra: l’avance non è un complimento. È una lama nascosta, uno strumento di controllo tra le mani di chi, dall’alto della sua posizione, crede di potersi imporre, avvolto dalla sicurezza di una gerarchia che pende a suo favore. E quel coltello, lo tiene saldamente se tu glielo concedi. Dentro di lui pulsa un maschilismo stantio, radicato, puerile, che lo avvolge e lo giustifica, che gli dà potere senza mai farlo dubitare. L’operazione di comprensione di ciò che sta avvenendo vuole la capacità di dare un nome alle cose, un punto affatto scontato. La trappola in cui si rischia di cadere è evidente nelle parole di Aryel: il senso di colpa, figlio del dubbio di essere complici, quasi che “ce la siamo cercata”.
Il senso di colpa è una trappola insidiosa, sa come paralizzarti, metterti all’angolo, renderti mansueta. Nasce dall’interno ma si nutre del giudizio esterno. Ipnotizzata dagli eventi, finisci per dare per scontata una colpa che non ti appartiene, imposta da aspettative e pressioni che ti spiegano con dovizia di particolari come dovresti essere o cosa dovresti accettare. Ma ricordati che il senso di colpa può servire come strumento di controllo, è un modo per mantenerti in uno stato di sudditanza emotiva. Per liberarti, devi necessariamente distinguere tra ciò che ti appartiene davvero e ciò che gli altri ti hanno fatto credere. E questo vale per ogni relazione possibile, quella tra genitori e figli, tra amici, tra fidanzati, tra vittima e carnefice…
Secondo l’ISTAT, oltre un milione di donne italiane ha subito molestie sul lavoro. Se non impariamo a dare un nome alle cose, abbiamo poche chances di uscirne, perché le parole definisco la realtà e se sbagliamo le parole rischiamo di sbagliare anche i comportamenti. È un po’ come dire che se chiamo mela un chiodo, rischio di trovarmi la lingua crocefissa, mentre desideravo solo gustarmi una macedonia. L’abuso psicologico, come un cibo avariato, ha un sapore amaro che si incolla al palato, lasciando un retrogusto d’ansia in ogni pensiero. L’abuso sessuale si insinua intrusivo nei confini dell’anima. È il corpo che parla, quando la mente ancora non osa. Chiamare abuso quello che è un abuso, molestia quella che è una molestia, questo è il punto. Un passaggio affatto scontato soprattutto per chi di noi ha finito per saturare i polmoni con la credenza che accettare un “complimento” maschile sia un atto di cortesia, una grazia irrinunciabile che un maschio ci concede. Cara grazia che te lo fa quel complimento, un maschio, segno che non sei una brutta racchia!
Che fare, dunque?
1. Riconoscere e nominare l’abuso: non è un riconoscimento alla tua persona, è un atto di potere. Nominarlo e parlarne rompe il silenzio che ti circonda e riduce la forza di chi lo esercita.
2. Coltivare la cultura del consenso: un “sì” pienamente consapevole, entusiasta, senza costrizioni. Se ti trovi in situazioni che ti creano disagio, fermarti e chiediti: “Questa cosa la desidero davvero?” Il consenso ti aiuta a rifiutare quello che non desideri, permettendoti di rivendicare la tua libertà e il tuo valore.
3. Rifiutare le giustificazioni: ogni volta che ignori o scusi comportamenti sessisti non stai adottando un comportamento elegante, ma stai dando potere al sistema patriarcale. Dire “no” a questi comportamenti, senza scuse, è una forma di autodifesa, di presa di posizione, di rivendicazione del rispetto.
4. Non cercare l’approvazione altrui: la cultura patriarcale ti insegna a misurare il tuo valore attraverso lo sguardo maschile. Ma il tuo valore è intrinseco, merita di essere riconosciuto e rispettato a prescindere dall’attenzione altrui.
5. Cerca sostegno: una delle armi più potenti è il supporto reciproco. Sottraiti all’isolamento e trova forza nel gruppo di donne.
6. Non avere paura della disapprovazione: di’ no, metti i confini, rifiuta una proposta inappropriata. La compiacenza non aiuta in queste occasioni e l’ipercompiacenza è sempre un danno per l’anima. Imparare a gestire la disapprovazione e il possibile disagio che ne deriva, proprio e altrui, significa affermare il diritto alla dignità e al rispetto. Non sei obbligata a spiegare ogni “no”; spesso basta pronunciarlo chiaramente e lasciare che sia ciò che deve essere.
7. Documenta e denuncia: hai questo strumento che offre un senso di controllo sulla situazione.
Sottrarsi al potere patriarcale è un percorso di consapevolezza, una presa di posizione continua. Ci vuole coraggio, sì. A volte ci vuole del supporto psicologico. Ma abbiamo bisogno di affermare i nostri diritti con coraggio in questa vita. La nostra forza nasce dalla consapevolezza e dal coraggio di non accettare compromessi sulla nostra dignità. Il potere dei predatori si regge sul silenzio delle vittime.
Rompiamolo.
*Foto in evidenza tratta da Pixabay