Dal 14 al 18 febbraio, al Teatro Grassi, per la prima volta al Piccolo, Giuliana Musso affronta il tema dell’occultamento della violenza nel contesto familiare: «Dentro non è teatro d’indagine, è l’indagine stessa, quando è ancora nella vita, la mia stessa vita. Dentro non è un lavoro sulla violenza ma sull’occultamento della violenza. Dentro è un piccolo omaggio teatrale alla verità dei figli».
Giuliana Musso, una delle voci più interessanti nel panorama contemporaneo del teatro d’indagine, porta sul palcoscenico del Piccolo Teatro il tema disturbante e necessario dell’occultamento della violenza intrafamiliare.
«Dentro – spiega Musso, Premio Hystrio 2017 alla drammaturgia e Premio ANCT 2021 – è la messa in scena del mio incontro con una donna e con la sua storia segreta. La storia di una verità chiusa dentro ai corpi e che lotta per uscire allo scoperto. Un’esperienza difficile da ascoltare. Una madre che scopre la peggiore delle verità. Una figlia che odia la madre. Un padre innocente fino a prova contraria. E una platea di terapeuti, consulenti, educatori, medici, assistenti sociali, avvocati che non vogliono sapere la verità».
«Il segreto – continua – ha un contenuto preciso e un fine positivo: protegge qualcosa o qualcuno. Il segreto silenzia una verità che potrebbe danneggiare degli innocenti. Anche la censura ha un contenuto preciso ma il suo fine è contrario a quello del segreto: danneggia gli innocenti, protegge vili interessi. Il tabù invece, per noi, oggi, è il puro terrore di sapere; quindi, il suo contenuto rimane ambiguo e indeterminato. In tutte le vicende di abuso sui minori che io ho conosciuto per voce delle vittime nessun colpevole è mai stato condannato. La violenza sessuale è un segreto che permane tutta una vita dentro alle case, dentro agli studi dei medici, degli psicoterapeuti o degli avvocati, in quelle dimensioni private in cui le vittime possono restare confinate senza venire riconosciute. I fini compassionevoli del segreto quasi sempre si fondono con quelli vergognosi della censura e con quelli inconsci del tabù. L’esistenza stessa delle vittime, con la loro rabbia inavvicinabile o con il loro inconsolabile dolore, ci turba fino alle radici e così, pur di non maneggiare l’odio dei padri, deploriamo quello dei figli. Storia antica quanto il patriarcato: narrazioni che sono strategie di rimozione e occultamento, prime tra tutte la normalizzazione stessa dell’abuso e la colpevolizzazione della vittima. Persino le storie fondanti della civiltà occidentale sono tutte storie di traumi, eppure, mentre conosciamo tutto di Edipo, di Laio invece, il padre assassino, sappiamo ben poco.
Da sempre, pur di salvare l’ordine dei padri, costruiamo impalcature concettuali che fanno perdere consistenza alla realtà dei traumi e alla voce dell’esperienza. E se la nostra esperienza di violenza non può essere riconosciuta allora viene minata alla radice la nostra dimensione ontologica, noi stessi forse smettiamo di esistere».
*Le foto nell’articolo sono di Federico Sigillo
Fonte: Ufficio Stampa Piccolo Teatro Milano