Dal 27 gennaio al 25 febbraio, al Teatro Studio Melato, Liv Ferracchiati porta in scena, in una nuova produzione del Piccolo, Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čajka), liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov, con la consulenza letteraria di Fausto Malcovati.
In una casa sul lago, uno scrittore è impegnato nella stesura di un nuovo testo, fissa le parole sul foglio, le cancella, le pronuncia ad alta voce, alla ricerca di una forma nuova, capace – forse – di incidere sulla realtà e di dare a lui una collocazione nell’esistenza. Sua madre è una grande attrice nella maturità del suo percorso artistico, la donna di cui è innamorato è un’attrice all’inizio della carriera. Le due, l’una riflesso dell’altra, sembrano non concedere al protagonista il riconoscimento a cui aspira come uomo e artista.
La sua fragilità è anche quella delle “nuove forme” artistiche a cui anela, forme che non sono ancora canone, destinate, quindi, come lui, a essere fraintese. Morire, allora, interrompendo la perpetua preghiera per esistere o, in alternativa, scrivere per mettersi al mondo da soli, per darsi forma davanti ai propri occhi e sopravvivere, sembrano le uniche possibilità.
Come tremano le cose riflesse nell’acqua è una nuova tappa del percorso di dialogo e confronto con i classici che Liv Ferracchiati, alla sua seconda regia in una produzione del Piccolo, ha avviato a partire proprio da Platonov. È anche, quindi, un ritorno a Čechov che, con il suo Gabbiano, approfondito grazie alla preziosa ‘mediazione’ linguistica e culturale di Fausto Malcovati, attraversa la scrittura del regista, ne è scintilla ispiratrice, ponendosi all’origine di un lungo lavoro, iniziato più di due anni fa, il cui esito finale è una drammaturgia del tutto originale.
Non è autofinzione, maniera teatrale spesso erroneamente attribuita al regista, che anzi l’ha voluta, non riconoscendovisi, deformare parodisticamente nella sua precedente regia HEDDA.GABLER. come una pistola carica. Inoltre, questa volta, Ferracchiati tiene per sé solo il ruolo di regista, senza calcare la scena, immaginando i personaggi di Čechov nella nostra contemporaneità, manipolando, scomponendo, riscrivendo scene e dialoghi intorno a due fuochi tematici: il rapporto madre e figlio e la ricerca, tormentata e inesausta, di un riconoscimento, una sorta di autorizzazione a esistere che discende, inesorabilmente, dall’altrui sguardo. La attende, anche nell’originale, Kostja (qui il Figlio) dalla madre e da Nina, ma è un anelito che attraversa tutti e rende Come tremano le cose riflesse nell’acqua uno spettacolo autenticamente corale, costantemente riflesso nelle acque, ora placide ora increspate dalla corrente narrativa, del lago, sulle cui rive si intrecciano le vite dei personaggi.
Solo all’apparenza immobile, lo specchio rovesciato attrae tutti con la sua insidiosa seduzione e prende vita attraverso le parole dei personaggi; essi ne sono guardati e lo guardano, sporgendosi sul suo abisso, vertigine anche interiore, e in esso smarrendosi, come nel caso di Kostja. «Un lago-placenta – spiega Ferracchiati – da cui è difficile staccarsi, perché separarsi dall’origine significa esistere con le proprie forze, senza mutuare ragioni negli sguardi altrui. Significa partorirsi, rinunciare al concetto di madre e allo statuto di figlio. Ci saranno ancora “tonnellate d’amore” come ne Il gabbiano di Čechov quindi, ma divise tra quelle che permettono di nascere definitivamente e quelle che uccidono». D’altra parte, il titolo, mutuato da un racconto di David Foster Wallace, Caro vecchio neon, allude precisamente a quella tremula evanescenza che disgrega le cose, agli occhi del protagonista, nell’istante che precede il suicidio, inteso proprio come atto di resa di fronte all’impossibilità di essere autenticamente se stessi.
La distribuzione universalizza in ruoli, ognuno con la sua didascalia esistenziale, i nomi dei personaggi cechoviani, fatta eccezione per Nina, simbolo e incarnazione stessa del Teatro, una che vuole fare l’attrice o la rivoluzione, interpretata da Petra Valentini. Arkadina diventa la Madre, una grande attrice forse in declino, interpretata da Laura Marinoni; Kostja, il Figlio, uno che prova a influenzare la realtà con la scrittura (Giovanni Cannata); Sorin, lo Zio, uno che voleva essere, ma non è stato (Nicola Pannelli); Trigorin, il Romanziere, uno a cui piace pescare, ma deve scrivere (Roberto Latini); Maša, la Vicina, una che porta prugne e il lutto per la sua vita (Camilla Semino Favro), Dorn, il Dottore, uno sazio della vita (Marco Quaglia); Medvedenko, il Maestro, uno a cui tocca camminare (Cristian Zandonella).
Nella personalissima geografia di spettacoli che Liv Ferracchiati va componendo per il Piccolo Teatro di Milano, in qualità di artista associato dal 2022, dopo essersi confrontato con la «mitologia terrigna» del testo ibseniano Hedda Gabler, l’itinerario creativo penetra ora tra le trasparenze del capolavoro čechoviano Il gabbiano, eleggendo a suo fulcro lo spazio fisico e mentale di un lago. L’acqua racchiude in sé le metamorfosi e le contraddizioni dell’esistenza dei personaggi, alla ricerca di verità, intime e collettive, che appaiono inafferrabili: è il luogo dell’erranza e della stasi, del turbamento e della pace interiore, del naufragio e della rinascita. È un orizzonte liquido, in cui, a mo’ di valzer degli addii (alle costrizioni del passato? Ai propri sogni?), i destini si intrecciano fino a unirsi per poi evaporare. Lo sguardo di Ferracchiati – pronto a cogliere e restituire, nella loro nuda vita, i dettagli delle storie che si rincorrono come increspature su una superficie mossa – apre deliberatamente voragini nell’opera del grande autore russo attraverso le quali affiorano le pagine e i fantasmi di scrittori coevi a Čechov (Guy de Maupassant) o cosiddetti post-moderni (David Foster Wallace). Sostenuta da un tessuto eterogeneo di tracce musicali, la chirurgica partitura di Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čajka) è animata dal talento dell’eclettica compagnia di attrici e attori in scena, il cui gioco interpretativo disegna elegantemente i contorni dell’eterno e ambiguo garbuglio tra arte (in particolare, scrittura) e realtà. (Claudio Longhi)
Fonte: Ufficio stampa Piccolo Teatro Milano