L’ictus è una malattia multifattoriale, i cui fattori di rischio, se individuati tempestivamente, possono essere corretti e curati. Prevenzione, gestione dell’acuto e riabilitazione sono basilari come anche l’importanza dell’interazione tra Ospedale e territorio.
Considerare l’ictus cerebrale non soltanto un fenomeno “acuto” da gestire in emergenza ma, in un’accezione più ampia, un evento determinato da una molteplicità di fattori, sui quali non esiste ancora una piena consapevolezza, nei confronti dei quali si può intervenire con un’opportuna attività di sensibilizzazione e prevenzione e, nel caso si verifichi, con la messa in atto di un adeguato percorso di riabilitazione. Tutto ciò in una logica di continuità assistenziale tra ospedale e territorio e una stretta collaborazione tra specialista e Medico di Medicina Generale. Elemento, questo, frutto di una elaborazione culturale di recente acquisizione, che necessita, quindi, di un perfezionamento e di interventi incisivi.
Questi, in estrema sintesi, gli elementi emersi nel corso dell’incontro che si è tenuto di recente dal titolo “L’ictus si previene ‘curando’ il territorio” promosso da A.L.I.Ce Lombardia – Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale, svoltosi a Milano presso la sede del Consiglio Regionale della Lombardia. “L’ictus è un grave problema di salute pubblica – afferma l’avvocato Fabrizio Carletti, Presidente di A.L.I.Ce Lombardia – che colpisce ogni anno in Italia circa 200 mila persone (nell’80% dei casi si tratta di ictus ischemico, nel restante 20% di ictus emorragico), con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di mortalità, disabilità ed inevitabilmente costi per il Sistema Sanitario Nazionale”. “Dal punto di vista delle innovazioni terapeutiche negli ultimi 10 anni abbiamo assistito ad enormi progressi – continua il Dottor Elio Clemente Agostoni, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e della Struttura Complessa Neurologia e Stroke Unit dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano, Coordinatore per la Regione Lombardia della Società Italiana di Neurologia (SIN) e della Società Italiana Neurologi, Neurochirurghi e Neuroradiologi Ospedalieri (SNO) – dall’introduzione della trombolisi sistemica (farmaci capaci di sciogliere i trombi nell’arteria cerebrale), che ha portato un notevole miglioramento per quanto riguarda la riduzione della mortalità, ma soprattutto della disabilità, alla trombectomia meccanica, ovvero la rimozione attraverso microcateteri del trombo nell’arteria cerebrale occlusa tramite dispositivi definiti “stent triver” che permettono di catturare il trombo e portarlo fuori dalla circolazione sanguigna. La combinazione di queste due procedure ha dimostrato, in tutti gli studi clinici, un’efficacia decisamente superiore rispetto alla sola trombolisi venosa.
Tuttavia, questo approccio terapeutico, per essere efficace, deve essere praticato in una finestra terapeutica ristretta: entro 4 ore, al massimo, dall’insorgenza dei primi sintomi nel caso della sola trombolisi, fino a 6 ore se effettuata in combinazione con la trombectomia meccanica.” Ma, se da un punto di vista clinico, l’efficacia dell’integrazione delle due terapie è notevole, da un punto di vista organizzativo, non tutti i Centri sono pronti a praticare questa doppia procedura. “I Centri – spiega Agostoni – devono avere le caratteristiche proprie delle stroke unit di 2° livello: neurologi dedicati e neurointerventisti capaci di aggiungere la seconda azione terapeutica. In Lombardia i Centri con queste caratteristiche sono 9 (complessivamente le stroke unit nella nostra Regione sono 42) e sarebbero numericamente sufficienti per soddisfare le necessità del territorio. Ma si deve fare di più. Dobbiamo perfezionare le stroke unit che hanno già queste valenze, aggiungendo figure professionali che possano costituire la base per offrire questa terapia 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno”.
Per quanto riguarda gli aspetti procedurali, Regione Lombardia ha finanziato 4 progetti articolati nelle diverse fasi dell’ictus: uno per la “prevenzione”, uno per la “riabilitazione” e due per la “fase acuta”. Questi ultimi due progetti hanno portato alla realizzazione di un Manuale di riferimento che contiene gli standard che dovrebbero essere il presupposto per certificare il “percorso ictus”. “Quando siamo partiti nel 2008 con questi progetti – spiega Agostoni – in Lombardia la percentuale della trombolisi nei pazienti con ictus ischemico era lo 0,9%; oggi è salita al 13%, in virtù dell’individuazione di criticità e della messa in atto di fattori correttivi”.
Le variabili di sistema che oggi rappresentano il punto di riferimento sui cui si dovrebbe lavorare per migliorare l’efficienza sono tre: ai primi sintomi di ictus chiamare il “118” che, a sua volta deve applicare al trasporto un codice di massima gravità (chiamato “codice ictus”). Il terzo elemento è che questo “codice ictus” venga confermato al triage. La prevenzione, dunque, diventa l’elemento fondamentale nella lotta a questa patologia. Prevenzione che inizia da una corretta diagnosi, fino all’applicazione di un adeguato regime terapeutico, che sarà tanto più efficace quanto più affidato al contributo di diversi attori all’interno di un sistema interprofessionale, interdisciplinare e multidisciplinare.
“L’attività preventiva andrebbe attuata su più livelli – dichiara il Dottor Ovidio Brignoli, Vice Presidente SIMG, Società Italiana di Medicina Generale – In primo luogo andrebbe attuato un monitoraggio delle patologie cardiovascolari su una popolazione “sana” con fattori di rischio predisponenti, che presuppone un’attività informativa nei confronti dei cittadini e dei clinici affinché sorveglino attentamente questa fascia di popolazione. Una volta, poi, che un fattore di rischio è stato identificato, ad esempio la Fibrillazione Atriale, è importante impostare un adeguato piano terapeutico, monitorando la persistenza e l’aderenza alla terapia, la sorveglianza degli eventi avversi, il trattamento di eventuali comorbilità extra cardiache (respiratorie, endocrine, metaboliche, ecc.). In questo caso il ruolo del Medico di Medicina Generale diventa imprescindibile.
L’importante – conclude Brignoli – è riuscire a lavorare di concerto con gli specialisti, dando vita ad un vero lavoro “di squadra”, colmando il gap esistente tra Ospedale e territorio”.