Un personaggio, Franco Moiraghi, dal cognome milanese che di più non si può, un lupo di mare, un capitano mio capitano. Te lo trovavi a San Donato Milanese, dove nel Centro Commerciale, un po’ discosto, aveva qualche anno fa aperto la Vineria con l’aggiunta del Vin Bon, o in qualche baita fra quelle disseminate lungo le malghe delle montagne lombarde, o in qualche fiera, pronto ad esaltare il gusto e le mille ricette risapute che ti sciorinava lì per lì a memoria d’uomo con le porzioni e le erbe aromatiche che trasformavano un risotto o un ossobuco in manicaretto da leccarsi i baffi, già solo nell’udire il suo racconto.
Lo abbiamo incontrato, io e mia moglie, il 18 agosto 2012, in una zona remota della Lombardia, verso sud, il pavese sul fiume Po, da cui era passato nei giorni precedenti il giornalista Paolo Rumiz che aveva voluto percorrere il fiume per descriverne i paesaggi e le culture che vi erano cresciute sulle sue sponde, interrogando gli ultimi addetti alle chiuse o alla pesca. Alla Tana del Lupo – ci confidò Franco – il pesce appena pescato veniva immediatamente fritto in un pentolone già pronto all’uso e il pasto era innaffiato dal vino dell’oltrepò pavese, coltivato a pochi chilometri di distanza. Ci raccontava anche di altri piatti prelibati come le rane, fritte, in carpione o in guazzetto, della cacciagione autunnale e invernale di lepri, faggiani, ecc. delle lumache, i risotti con i funghi e le rane e “spruzzata finale di prezzemolo” precisava Franco, il meneghin, frequentatore di questi posti, attratto dalla gentilezza dei pescatori, improvvisati cuochi, dalla qualità del cibo e dai prezzi contenuti del servizio.
Franco amava la semplicità della cucina lombarda tradizionale. Lui conosceva nomi di erbe tipiche che contribuivano a creare la leggenda del profumo e del sapore della campagna, avendo esercitato la professione di farmacista in una erboristeria all’Isola d’Elba. Il suo scopo era divulgare la bontà dei prodotti della terra e degli insaccati o dei formaggi, una miriade, in questa terra davvero benedetta.
La sua sapienza lo rendeva unico e, a volte, indisponente quando notava che attorno a lui non vi era quella sensibilità per i prodotti naturali e la conoscenza della qualità di ogni specie esposta sugli scaffali o nel bancone della Vineria.
Amava viaggiare, Franco, uscire dai propri ranghi e avventurarsi nel mondo estremo portando il suo scetticismo popolare ma anche l’entusiasmo di un bambino che vede per la prima volta luoghi sconosciuti stupefacenti. “L’anagrafe non conta, – diceva – la salute è la mia medicina insieme alla ricchezza del mio sorriso, perché la vita è un sogno meraviglioso.”
Mi chiamava ‘teatro’ perché l’avevo convinto ad assistere ad un mio spettacolo sul cibo ad Expo 2015. ‘Dalla terra la vita’ era il titolo, un omaggio al nostro rapporto con il cibo, come prodotto della terra e della cultura degli uomini. Quella che Franco non cesserà mai di amare.