L’Accademia di Belle Arti di Macerata presenta I giovedì colorati, un progetto a cadenza mensile che vuole entrare nel vivo dell’arte contemporanea presentando gli artisti più brillanti del panorama italiano, invitati a raccontare in prima persona le loro passioni, il loro modus operandi.
Il primo incontro di questo nuovo programma è dedicato al duo Bianco-Valente che, in dialogo con Rossella Ghezzi e Antonello Tolve, racconteranno giovedì 4 aprile 2019, ore 16.00, Auditorium Josef Svoboda, il loro itinerario formativo e creativo, il loro muoversi, sin dalla prima metà degli anni Novanta, nel campo delle teorie della percezione e delle estetiche relazionali.
Duo artistico nato nel 1994, Giovanna Bianco (Latronico, 1962) e Pino Valente (Napoli, 1967), partono infatti da una ricerca che indaga i fenomeni legati alla percezione, con una serie di rimandi al corpo (inteso come spietata topia, come dispositivo chiuso) e alla mente (luogo del pensiero, sfuggente, struggente e senza confini), o a tutta una serie di saperi che vanno dalla fisica all’astrologia, dalla storia alla geografia, dall’antropologia alla letteratura. Nascono in questo periodo lavori come Deep in My Mind (1997), Breathless (2000), Slow Brain (2001), Deep Blue Ocean of Emptiness (2002) o Uneuclidean Pattern (2003), dove artificio e natura si confondono per creare una visione estroflessa del pensiero, un cortocircuito capace di mostrare quello che vede la mente, tra sogno e realtà.
Assecondando un discorso che si nutre di scrittura, a partire dal 2003-2004 (anno in cui realizzano Unità minima di senso, una striscia di carta di 2cmx1,5km sui cui due lati si avverte una scritta continua) Bianco-Valente puntano l’attenzione anche sulla parola, intesa come fonte di partecipazione, di trasmissione e di comunicazione, per riflettere «sulla possibilità di affidare alla forma linguistica e ai suoi supporti il carico incorporeo di memorie, esperienze, suggestioni» (A. Troncone). Accanto a installazioni video, immersive e dialogiche nei confronti dello spettatore (Tempo Universale del 2007 ne è esempio brillante), o a progetti reticolari legati a sistemi relazionali come The Effort to Recompose my Complexity (2008), alle varianti di Relational (2010-2018) e a Frequenza fondamentale (2012), il duo spinge la riflessione su una Materia Prima (1994-2008) che è racconto, fondamento da cui partire per fare esperienza con il mondo, con la sua immaginazione e con le sue società.
«Proprio l’altro giorno pensavamo alle costellazioni, al fatto che l’uomo fin dalla notte dei tempi ha sentito la necessità di legare insieme gruppi di stelle con delle linee immaginarie, di fatto invisibili nel cielo notturno, dando loro delle forme, dei nomi, delle simbologie. Le costellazioni e i pianeti, legati insieme a loro volta in uno scenario mitologico, hanno personificato innumerevoli storie che sono state tramandate di generazione in generazione, prima oralmente e poi tramite la scrittura, fino a noi. Forse non è un caso che i fenomeni cerebrali alla base della percezione funzionino allo stesso modo: ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa di sconosciuto, di mai esperito prima, i dati grezzi che dalla nostra rete sensoriale affluiscono al cervello vengono messi in relazione con il bagaglio di esperienze precedenti, con il ricordo di tutti i fenomeni, con le costellazioni di persone, luoghi e oggetti con cui abbiamo avuto la possibilità di relazionarci in passato.
Solo in questo modo, confrontando lo stimolo sensoriale con l’esperienza acclarata, ci è possibile dare un nome alle cose, immaginare in che modo un luogo, una persona o un oggetto sia legato a tutto il resto. Il lavoro dell’artista si basa proprio su questi principi: rendere visibile l’invisibile, suggerire, evocare, fare emergere la rete infrasottile di connessioni che tiene legati insieme eventi, persone e luoghi, nello spazio e nel tempo. In questi processi c’è poco spazio per il dato di cronaca, per le tecnologie, per l’affezione o l’abitudine ai mezzi espressivi e ai propri desideri, serve invece andare al fondo delle questioni, arrivare alle pulsioni istintive che caratterizzano l’uomo, che apparentemente lo governano. È necessario continuare a porsi le domande che sembrano non avere una risposta, continuare a cercare il vero senso della nostra esistenza, praticare il terreno di gioco dei filosofi e degli uomini di fede cercando, se possibile, nuove prospettive da cui osservare l’esistente. Bisogna essere preparati a stravolgere in qualsiasi momento i propri progetti, accettando con leggerezza l’imprinting dato dal tempo, dal luogo, dalle persone che lavorano con noi, ogni volta che estroflettiamo un pensiero che dalla nostra mente va ad adattarsi alla realtà esterna.
A pensarci bene, sono proprio tutti questi piccoli incidenti di percorso che rendono pienamente vitale, contemporaneo, necessario il nostro lavoro. Dobbiamo accettare l’idea che noi possiamo solo strutturare e dare avvio a processi di interazione che col tempo non saremo più in grado di controllare pienamente. Non possiamo avere la presunzione di tenere conto e modellare tutte le variabili che animano i processi legati alla complessità. Niente paura, le cose andranno esattamente come devono andare. Se la perdita di tutte le certezze fa paura, se non è sopportabile che gli orizzonti di senso appaiano così lontani, sfrangiati, inutilizzabili per l’orientamento, si può sempre decidere di lavorare in uno spazio definito, poco complesso, non problematico, in cui è vero, ci sarà possibile controllare ogni cosa, ma da cui non potranno che emergere opere di maniera, non attinenti, con una prospettiva che a stento inquadrerà il nostro ego, solo quello» (Bianco-Valente, Traguardare, 2019).