Fino a circa tre decenni fa l’Italia era uno dei primi Paesi al mondo per i depositi a risparmio. Le famiglie italiane associavano all’alto coefficiente dei consumi una altrettanto alta predisposizione al risparmio.
Oggi lo scenario è mutato e la diagnosi è stringente nella sua durezza: l’italiano non risparmia più. Non perché abbia perso la predisposizione a “mettere da parte”, ma perché ha meno liquidità economica, è più diffidente verso le attuali forme di risparmio a causa degli infortuni borsistici, della crisi dei mercati internazionali nel periodo della new economy, e perché ha diminuito la capacità di risparmio rispetto alla generazione precedente. Per questo sceglie la liquidità che, considerati i rendimenti dei conti correnti oggi offerti dalle banche, è come tenere i soldi sotto il materasso. La forma di investimento suggerita dagli analisti finanziari è (forse) quella negli immobili, ma non tutti possono permetterselo.
Notevole diffidenza suscita il mondo dei promotori finanziari e delle banche per cui a queste ultime si delega per lo più il compito di pagare le bollette e regolare il bancomat incrinando il rapporto tra banche e cittadini che era all’origine del risparmio.
Il notevole cambiamento è avvenuto con l’euro: i prezzi sono raddoppiati e gli stipendi sono rimasti uguali, mentre liberi professionisti e autonomi hanno aumentato, raddoppiandole, le loro parcelle. Le banche stesse hanno subito scaricato sui clienti i costi di gestione. Ne hanno fatto le spese i ceti medio-bassi: l’inflazione infatti è chiamata “la tassa dei poveri”. Quella che doveva essere una fase di passaggio si è ormai stabilizzata: non manca nulla, ma è molto difficile mettere da parte qualcosa per il futuro o pensare con tranquillità alle vacanze. E’ emblematico il fatto che si sia tornati a comprare a rate o a far segnare le spese al panettiere sul famoso quaderno: non è una moda ma una necessità. Basti pensare alle difficoltà dei disoccupati, di chi ha un lavoro precario, di chi deve pagare l’affitto, di chi deve mantenere in casa figli adulti senza un impiego stabile, di chi deve accudire gli anziani, di chi inizia a lavorare regolarmente dopo i trent’anni. Verso tale situazione c’è un atteggiamento di rassegnazione, come di fronte ad una inevitabile fatalità.
Il mondo del risparmio crolla di fronte a questo scenario. Occorre pertanto una nuova strategia, una nuova impostazione: offrire il prodotto finanziario migliore al minor costo possibile, spiegando al cliente poco esperto come investire in modo attento e oculato. La forma migliore di proposta sarebbe quella di un “tutoraggio morale” nei confronti delle persone che per età, situazione fisica e condizione psicologica si trovino in uno stato di incapacità nel gestire in modo autonomo i risparmi di una vita. In pratica ciò rappresenta il richiamo a riscoprire le relazioni personali nell’ambito dei servizi bancari, nel senso di offrire un aiuto concreto alle persone meno esperte, ai piccoli risparmiatori poco avvezzi agli strumenti finanziari, studiando specifiche modalità operative e prudenti forme di investimento che tengano conto dei bisogni e delle capacità del singolo risparmiatore, e di modalità assicurative e previdenziali.
Il risultato sarebbe quello di ricostruire un rapporto di fiducia che nasca dal senso di responsabilità delle banche, non come elemento decorativo del mondo finanziario ma come condizione essenziale per il loro operare.
I casi legati all’Argentina, alla Cirio, alla Parmalat, alle difficoltà di istituti bancari medio-grandi hanno dimostrato che l’irresponsabilità crea danni e sofferenze soprattutto ai più deboli. Solo un esercizio congiunto di responsabilità da parte dei risparmiatori, delle istituzioni governative e creditizie può ricreare quel clima di fiducia di cui il credito ha bisogno per rispettare le scelte dei piccoli risparmiatori e per favorire la ripresa economica, che poi diventa anche ripresa sociale e civile. Che vuol dire favorire il bene comune.