Stiamo affrontando il problema dell’efficacia pratica della preghiera. Nello scorso articolo abbiamo iniziato ad affrontare i primi studi, tra lacune metodologiche e(probabili) manipolazioni dei risultati. Di seguito, finalmente, i lavori svolti con più attenzione ed onestà. Pregare dunque funziona?
Gli studi recenti II: le cose fatte per bene.
I tre più autorevoli lavori sulla prghiera di intercessione sono senz’altro il Monitoring and Actualisation of Noetic Trainings II (MANTRA II), lo Study of the Therapeutic Effects of Intercessory Prayer (STEP) ed infine Intercessory prayer and cardiovascular disease progression in a coronary care unit population: a randomized controlled trial, realizzato alla celebre Mayo Clinic.
Il MANTRA II, pubblicato sull’autorevolissimo The Lancet nel 2005 [7], utilizza due pratiche noetiche, ovvero non mediate da elementi tangibili: la preghiera di intercessione ed un complesso di attività definito MIT (music, imagery and touch) su pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica percutanea o cateterizzazione vascolare elettiva. Se lo studio della preghiera era in doppio cieco, la terapia MIT ovviamente non poteva esserlo. Essa consisteva in sessioni di quaranta minuti in cui il paziente era al cospetto di un’immagine (a scelta tra numerose) da lui ritenuta più rilassante, ascoltava la musica da lui preferita (anche questa a selezionata tra diverse), ed effettuava pratiche di rilassamento con un terapeuta, che inoltre imponeva le mani a scopo curativo su ventuno regioni del corpo del paziente. I dodici gruppi di preghiera, invece erano preformate congregazioni di cristiani, musulmani, ebrei e buddisti.
Il progetto STEP [8] includeva milleottocentodue pazienti randomizzati divisi in tre gruppi: i primi due informati riguardo la possibilità di ricevere o non ricevere la preghiera di intercessione, mentre il terzo sicuro di riceverla, in modo tale da eliminare il bias del potenziale beneficio psicosomatico derivante. L’ideale sarebbe stato evitare di informare sia i medici che i pazienti, mentre i fedeli pregavano per alcuni e non per altri, ma per questioni medico-legali non è possibile includere in uno studio un paziente che non sia stato congruamente informato, anche se in alcun modo può cagionare qualcosa di negativo. Ovviamente, in tutti questi gruppi poteva esserci qualcheduno che, in base alle convinzioni individuali, avrebbe potuto trarre beneficio anche solo dalla possibilità (su cui era stato istruito) che si pregasse per lui, ma l’impatto statistico era tuttavia auspicabilmente eliminato dalla randomizzazione. L’unica indicazione che i ricercatori, coordinati dal Professor Benson di Harvard, diedero per le orazioni comunitarie fu quella di includere nella propria consueta liturgia le seguenti parole: ‘[per] il successo dell’intervento chirurgico con un veloce e salutare recupero e senza complicazioni’. Il resto era perciò affidato alle consuete pratiche liturgiche. Lo studio fu pubblicato sull’American Heart Journal nel 2006.
Il trial della Mayo Clinic [9] includeva settecentonovantanove pazienti divisi nei due gruppi caso e controllo, valutando la differenza in termini di complicanze (arresto cardiaco, morte, reintervento, reospedalizzazione) ed ‘aggiustando’ il campione in base ai fattori di rischio preesistenti (età, diabete mellito, infarto miocardico pregresso, malattia cerebrovascolare o vascolare periferica), i quali avrebbero di certo ridotto la significatività delle osservazioni. Nel gruppo case cinque intercessori pregavano almeno una volta a settimana per ventisei settimane per ogni malato.
Nessuno degli studi in questione evidenziò una differenza significativa in termini di outcome clinico tra i pazienti per cui si pregava ed i pazienti per cui non si pregava.
Probabilmente un antistress.
Invece uno studio dal titolo Effect of rosary prayer and yoga mantras on autonomic cardiovascular rhythms: a comparative study, pubblicato sul British Medical Journal nel 2001 [10], dimostrava negli oranti un significativo incremento nella sensibilità dei barocettori carotidei, che controllano pressione e frequenza cardiache, con riduzione delle stesse. Insomma la preghiera e i mantra agivano in modo sovrapponibile per ridurre lo stress.
Fabio Villa
Nato a Monza nel 1986 e si è laureato in medicina col massimo dei voti presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
Durante gli studi si dedica ad attività di volontariato in Italia ed all’estero (India, Nepal, Mali, Rwanda, Brasile, Cambogia).
Dopo tre anni di formazione chirurgica nel dominio cardiovascolare, ed un master in economia che l’ha portato in università quali Harvard e Fletcher, si è trasferito a Ginevra, ove si dedica all’esercizio della Psichiatria e Psicoterapia ed in parallelo a svariati progetti.
Vanta prestigiose pubblicazioni sulle più autorevoli riviste scientifiche, tra cui The New England Journal of Medicine.
Si dedica inoltre alla filosofia delle scienze ed alla storia delle religioni. Nell’aprile 2014 pubblica il libro Il Placebo. Viaggio nell’Idea di Dio (Aracne) nella collana Atene e Gerusalemme diretta da Giuseppe Girgenti, professore di Filosofia Antica ed allievo di Giovanni Reale.