Dal 16 al 19 aprile arriva, al Teatro Strehler, Zio Vanja di Anton Čechov, con la regia di Leonardo Lidi, una produzione del Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Festival dei Due Mondi di Spoleto. Dopo Il gabbiano, in scena nella scorsa stagione sul palcoscenico del Teatro Strehler, il regista prosegue la sua ricerca sul teatro di Čechov, confrontandosi con un altro grande classico firmato dal maestro russo.
La placida esistenza di Vanja nella sua tenuta di campagna è interrotta dall’arrivo del professor Serebrijakov, che, accompagnato della giovane moglie Elena, altera ogni equilibrio. Leonardo Lidi sceglie Zio Vanja come seconda tappa del suo Progetto Čechov: una commedia domestica costruita sull’impotenza e sull’inerzia, che racconta le vicende di una famiglia sconfitta dai propri vuoti, tra occasioni mancate, rinunce e rimpianti. I protagonisti del dramma, ospiti di una grande dacia in decadenza, sono bloccati nell’immobilismo della provincia russa e, scontenti, sopravvivono a sé stessi, crogiolandosi nella noia e nel tormento per i propri fallimenti. Chi se ne va è appesantito da un bagaglio di frustrazioni e incomprensioni, mentre chi rimane affonda in una routine grigia e senza prospettiva. Eppure, la stasi dei personaggi è solo apparentemente sterile; in realtà funziona come un potente specchio che rimanda con forza l’immagine delle nostre debolezze e inconcludenze. E su tutto domina l’adagio finale di Sonja: “Dobbiamo continuare a vivere. Vivremo una lunga, lunga serie di giorni, di interminabili sere, sopporteremo pazientemente le prove che ci toccheranno”.
Scrive il regista: «C’eravamo tanto amati. C’è stato un tempo dove questa strana famiglia non era poi così strana. I ruoli erano ben distribuiti, con credibilità e senza eccessi, e ogni personaggio poteva considerarsi utile allo spettacolo del quotidiano. Ognuno al proprio posto, con ordine e naturalezza. Chi indossava il costume dell’intellettuale, ad esempio, era da considerarsi metafora di speranza futura ed era opportuno riservare ad esso amore e gratitudine come ad un eroico e fascinoso cavaliere.
Era lecito che una bella e gentile ragazza si invaghisse del proprio professore ed era altrettanto plausibile che la famiglia della giovine tutelasse il sapiente uomo come un animale in via d’estinzione. E così Vera si sposa con Aleksandr, lo porta a Casa e la storia comincia. Gli abitanti del pianeta Čechov si animano, trovano una dimensione adeguata alla propria formazione, tutti remano nella medesima direzione e la possibilità di una Russia efficace e vincente smette di essere un miraggio e si tramuta in un concreto e reale domani. In una dimensione dove l’uomo è artefice del proprio destino la felicità potrebbe trovare il giusto spazio. Ma Vera muore e tutto cambia. La speranza si spegne e chi prova a ricominciare suona ridicolo nel suo tentare. Il cuore si tinge di nero e questa possibile colorata commedia diventa una dissacrante e continuata risata isterica ad un funerale. L’idea di un paese guidato dai suoi pensatori è sepolta e noi non possiamo che fare i conti partendo da questo inesorabile dato di fatto. Questa casa è culturalmente morta, amici miei. È governata da ignoranti e da sterili ideologie. Ce lo ricorda lo Zio, quel buffone vestito male che palpa con gli occhi le nostre fidanzatine e aspetta le riunioni di famiglia per alzare il gomito e sbatterci in faccia la nostra condizione perennemente umiliante. Inutile lavorare, inutile impegnarsi, inutile studiare. Dice, lo Zio. Meglio aspettare un reddito senza sudare, meglio lamentarsi di chi ha distrutto il talento. La seconda tappa del Progetto Čechov abbandona il gioco e si imbruttisce col tempo. Spazza via i contadini che citano Dante a memoria per consentire un abuso edilizio ambizioso e muscolare. C’era un grande prato verde dove nascono speranze e noi ci abbiamo costruito una casa asfissiante con troppe inutili stanze ad occupare ogni spazio vitale. Avevamo sfumature e ora c’è un chirurgico bianco e nero che strizza l’occhio allo spettatore intelligente. Avevamo donne e uomini che cercavano la vita attraverso l’amore ma abbiamo preferito prenderne le distanze. Quando? Quando è diventato “troppo poco” parlare d’amore? Come se poi ci fosse qualcos’altro di interessante.
Se nel Gabbiano sprecavamo carta e tempo nel ragionare sulla forma più corretta con il quale passare emozioni al pubblico, divisi tra realismo e simbolismo, tra poesia e prosa, tra registi, scrittori e attrici, e ci bastava una panchina per tormentarci dei dolori del cuore (Quanto amore, lago incantatore!) in Zio Vanja l’arte è relegata a concetto museale, roba da opuscoli aristocratici, uno sterile intellettualismo che non pensa più al suo popolo, che annoia la passione e permette agli incapaci di vivere di teatro. E allora che questa strana famiglia cantata da Čechov abbia la faccia di Gaber. La sua maschera irriverente. O meglio ancora di Freak Antoni. Che sia stonata e sgrammaticata. Sconfitta dai propri fantasmi. Ripugnante e fastidiosa. Con l’alito cattivo. Più alta del crocchiare di una gallina ad un comizio, più profonda del raglio di un asino messo a pilotare un aereo che si sta per schiantare. Che prenda in giro chi si nasconde dietro ai progetti perché spaventato e che faccia tanti e tanti e sentitissimi applausi a chi crede che Zio Vanja sia un testo attuale perché parla di alberi. Avete costruito un focolare tanto stupido che preferisco congelare al sincero freddo della mia solitudine, lasciatemi fuori, escluso come il cane di Rino Gaetano! Prendetevi le ghiande e lasciatemi le ali. In questa cosa/casa non ci voglio neanche entrare – ma siate pazienti, l’anno prossimo la vendiamo per davvero! “Non è nulla bambina mia, le oche starnazzano per un po’ e poi si calmano… Starnazzano per un po’ e poi si calmano”».
*nella foto in evidenza: ZIO VANJA. Massimiliano Speziani, Mario Pirrello – ph Gianluca Pantaleo_
Fonte: Ufficio stampa Piccolo Teatro Milano